«Temevo l’invito a tornare alla poesia»

E due. Dopo la cinquina del Campiello, il trevigiano Francesco Targhetta con “Le vite potenziali” (Mondadori) si aggiudica anche il Premio Giuseppe Berto, la cui cerimonia conclusiva si è svolta sabato sera a Casa Berto, a Capo Vaticano. Nella selezione finale, la giuria lo preferito agli altri finalisti: Carlo Carabba, con “Come un giovane uomo”, Marsilio Editori; Oreste Lo Pomo, con “Malanni di stagione”, Cairo; Mirko Sabatino, con “L’estate muore giovane”, Nottetempo, e Matteo Trevisani, con “Libro dei fulmini”, Atlantide. Trentotto anni, Francesco Targhetta, studioso della poesia italiana del Novecento e poeta in proprio, insegna italiano e latino nel liceo di Vittorio Veneto e questo è il suo romanzo di esordio.
Esordio molto felice, si può dire, a questo punto.
«Non so se si possa considerare proprio un esordio, credo che l’attenzione al mio libro derivi anche da quello che avevo scritto prima in versi. Il Premio Berto è una grande soddisfazione per molti motivi. Sono il primo trevigiano a vincerlo, ma sono anche il primo scrittore a vincerlo dopo aver vinto, quasi venti anni, fa il Premio Berto riservato agli studenti, con una poesia scritta a diciotto anni. In più Giuseppe Berto è uno degli scrittori che più ho amato e non solo, da trevigiano, per “Il cielo è rosso”. Già quando scrivevo poesie dicevo che tra i miei modelli non c’erano solo poeti, ma anche prosatori come appunto Berto, con la sua lingua, la sua sintassi, la torrenzialità soprattutto di “Il male oscuro”, che è uno dei libri che amo di più. Per questo anche ero molto curioso di vedere questa casa mozzafiato e il paesaggio che compare alla fine del romanzo».
Ora si può dire che passare dalla poesia al romanzo è stato un successo.
«Non era scontato, perché prima di questo libro avevo scritto in prosa solo un romanzetto a diciassette anni. Poi solo poesia. Non avevo mai scritto neppure un racconto, ed anzi tuttora credo non ne sarei capace, perché i racconti sono la sfida più ardua per uno scrittore. Il riscontro critico che sta avendo il libro mi conforta. Temevo di trovare alla fine delle recensioni un invito a tornare alla poesia, invece non è ancora successo. Per scrivere poesie non c’è bisogno di avere esperienza compiuta del mondo e per questo, credo, ho cominciato da lì. Per scrivere un romanzo, invece sì».
Il passaggio è avvenuto attraverso uno strano libro, “Perciò veniamo bene nelle fotografie” (Isbn), un romanzo in versi che ha avuto grande attenzione critica.
«Sì, è stato una svolta per me. Era un libro su commissione, nel senso che alla Isbn avevano letto le mie poesie e gli erano piaciute, perché erano abbastanza pop, se così si può dire, non elitarie come è talvolta la poesia. Solo che loro non pubblicavano poesia e allora mi suggerirono come genere il romanzo in versi ed ha funzionato».
Studioso di poesia e poeta. C’è un legame stretto? Chi l’ha influenzata di più?
«C’è stato. Quando facevo ricerca all’università l’influenza di ciò che studiavo era diretta, adesso molto meno. Il poeta a cui devo la mia decisione di scrivere è Gozzano. Ho letto “La signorina Felicita” a 13 anni e mi piace molto che anche alcuni lettori di “Le vite potenziali” abbiano colto questo legame. Un altro scrittore che amo molto è Bianciardi, ma per scrivere un romanzo ho letto soprattutto scrittori abili nella trama, da McEwan a Roth, perché sapevo che quello era il mio punto debole».
Negli ultimi tempi la critica e i premi sembrano amare molto i poeti passati alla prosa. Di contro si rimprovera ai prosatori di usare una lingua piatta perché sono interessati solo alle trame. Le due cose sono collegate?
«Credo di si. La trama è importante ma non può essere al centro della valutazione del lettore. Non si dovrebbe scegliere un libro perché pare interessante la storia, piuttosto bisognerebbe aprirlo, leggere una pagina e dire: questa scrittura mi coinvolge. Da questo punto di vista i poeti sono più attenti alle parole, perché di solito ne usano poche e quindi devono scegliere con molta più attenzione. Tanto i libri non è si vendono lo stesso, tanto vale rischiare puntando alla qualità letteraria».
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova