«Verdetto equo, Diaz è figlio nostro»

Il direttore Barbera e il presidente Baratta: «Gli americani hanno capito che il Lido è un trampolino»
Di Manuela Pivato
Phillipino director Lav Diaz poses after receiving the Golden Lion award for his movie "The Woman Who Left (Ang Babaeng Humayo)" during the 73rd Venice Film Festival in Venice, Italy, 10 September 2016. ANSA/M.ANGELES SALVADOR
Phillipino director Lav Diaz poses after receiving the Golden Lion award for his movie "The Woman Who Left (Ang Babaeng Humayo)" during the 73rd Venice Film Festival in Venice, Italy, 10 September 2016. ANSA/M.ANGELES SALVADOR

Un verdetto equo, la cui varietà dei premi corrisponde alla varietà dei temi. E niente paura per i 226 minuti di “The Woman who Left” del regista filippino Lav Diaz che si è aggiudicato il Leone d’Oro: davanti alla televisione la gente resta molto più di quattro ore. Con la serenità del day after, consapevole di aver portato a casa un buon festival uscito indenne dalle polemiche, dagli scandali e dagli agguati, il direttore della 73esima Mostra internazionale d’Arte cinematografica Alberto Barbera chiude il cerchio degli undici giorni di grande schermo insieme al presidente della Biennale Paolo Baratta, lassù all’ultimo piano del Palazzo del Cinema, mentre ai loro piedi, sul red carpet, sfilano gli uomini dei traslochi.

«Mi sembra che questa giuria abbia emesso un verdetto tra i più equilibrati degli ultimi anni» dice Barbera. «Lav Diav non è un autore facile ma alla fine credo che il tentativo di conciliare il grande cinema d’autore con il cinema che cerca il dialogo con il pubblico sia riuscito». Quindi nessuno spari su Diaz, anche se i dubbi sulla possibile distribuzione di un film che racconta l’epopea di una donna filippina rimasta ingiustamente in carcere per trent’anni sono forti e legittimi.

«Quattro ore con Lav Diaz sono una passeggiata» ricorda ancora Barbera «sono convenzioni del secolo scorso, se misuriamo le cose con il tempo, come la durata di un film, non capiamo il cinema contemporaneo». Applauditissimo alla premiazione, più di qualcuno forse avrebbe avuto voglia di chiedere al regista come finisce la storia visto che, pare, alla prima per la stampa, erano rimasti in Sala Darsena in meno di una dozzina.

E comunque, continua Barbera, «dopo cinque anni di lavoro costante gli americani hanno capito che Venezia è un buon investimento e che vale il gioco. Qui ottengono una grande visibilità internazionale, qui è il trampolino di lancio per gli Oscar. A Toronto gli americani vanno per il mercato domestico ma se vogliono qualcosa di più vengono a Venezia». Non è un caso, come ricorda Baratta, che Diaz sia nato a Venezia, così come Tom Ford: registi lanciati proprio dal festival del Lido e dunque «tutti figli nostri». «Un segno del grande prestigio di questo festival» aggiunge il presidente della Biennale.

Ed è anche grazie alle grandi produzioni americane che ora può leggere sui suoi appunti numeri più che lusinghieri: gli accreditati sono aumentati del 5,14%, gli abbonamenti del 10,63%, i biglietti venduti del 16,75% per un totale di oltre 50 mila ticket, ai quali vanno aggiunti i 5 mila della nuova Sala Giardino. «Non ci sono dati sul numero delle biciclette presenti» - dice scherzando Baratta «né di quelle rubate, ma per l’anno prossimo ci impegniamo a mettere più rastrelliere».

Le major si sono dovute accontentare del Leone d’Argento a Tom Ford, della Coppa Volpi a Emma Stone e del premio per la migliore sceneggiatura a “Jackie”, che per molti avrebbe dovuto vincere di più.

A mani vuote il cinema italiano che spunta solo il Premio Orizzonti per il miglior film, assegnato al film documentario “Liberami” di una raggiante Federica Di Giacomo. «Un esorcista senza effetti speciali ma di uguale tensione» dice Barbera. Sul vuoto dei tre film in concorso, invece, nemmeno la gloria di una polemica in quanto già si sapeva che non avevano le caratteristiche per vincere qualcosa, e così è stato.

«Il nostro cinema sta vivendo non una stagione, ma un semestre, poco felice perché la maggior parte dei registi sta ancora lavorando ai propri film» conclude Barbera. «Ho fatto un scelta sapendo di correre dei rischi cercando di dare indicazioni più di una tendenza che non di valori assoluti».

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