26 gennaio 1994, Berlusconi scende in campo: cosa resta del video che rivoluzionò la politica
Il 26 gennaio 1994 il messaggio con cui annunciò la discesa in campo alla guida di un nuovo centrodestra: «L’Italia è il Paese che amo» Dopo, da Grillo a Renzi in tanti si sono
rivolti direttamente agli elettori, ma senza la sua carica di ottimismo

E dopo quel 26 gennaio del 1994 nella politica italiana nulla è stato più come prima. «L’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici...», diceva Silvio Berlusconi nel suo celeberrimo videomessaggio di annuncio della “discesa in campo”, di cui ricorre oggi il trentennale.
Una videocassetta Beta, il cui contenuto di 9 minuti e mezzo inaugurava una nuova stagione politica e comunicativa, destinata a segnare in maniera indelebile, nel bene come nel male, la storia nazionale.
Venne accolta principalmente con una scrollata di spalle dalla sinistra che riteneva di avere il vento in poppa dopo il quasi cambio di regime determinato da Mani Pulite e l’azzeramento della «Repubblica dei partiti».
E che, non avendo compartecipato al sistema di corruzione delle forze raccolte nel pentapartito, si vedeva già proiettata al governo del Paese nella nuova stagione inaugurata dalle inchieste di Tangentopoli in un clima di giustizialismo cavalcato poderosamente – una linea editoriale, vista col senno del poi assai paradossale, ma tutt’altro che tale in quel contesto – proprio dai media berlusconiani.

Contrariamente alle attese, come noto, la sinistra non avrebbe vinto in quel momento e avrebbe soprattutto mancato per molteplici ragioni l’appuntamento con la comunicazione (e la cultura) postmoderna: un treno – ancorché discutibile sotto alcuni profili – perduto per sempre.
Nel frattempo, nel nome dell’anticomunismo e dell’aggregazione di interessi e gruppi che si sentivano sperduti, all’insegna di una vera e propria “guerra lampo”, Berlusconi si erigeva a punto di riferimento di settori consistenti dell’elettorato orfano del pentapartito.
E lo faceva attraverso tutta una serie di innovazioni comunicative (il marketing politico postmoderno e la campagna elettorale permanente) e organizzative (il partito personale) destinate a larghissima fortuna successiva e a fare scuola.
Raccogliendo in tal modo quello che aveva seminato con altre finalità (pubblicitarie e di profitto), ma che, nel generale rivolgimento dello spirito dei tempi, tornò utilissimo anche all’ingresso in politica, inaugurando pertanto anche quel vulnus del conflitto di interessi su così larga scala che ha costituito una componente di rilievo della plurima anomalia italiana di questo ultimo trentennio.
La televisione commerciale degli anni Ottanta aveva infatti diffuso e generalizzato nuovi canoni estetici e stili di consumo, ormai sideralmente lontani dall’Italia a elevata mobilitazione politica dei due decenni precedenti
Questo, come ricordano gli studiosi, non significa dire che, in modo deterministico e “automatico”, erano state le tv a far vincere Forza Italia nelle varie competizioni elettorali, ma che il berlusconismo politico ha ovviamente potuto avvantaggiarsi del clima di opinione e dell’immaginario generato dal berlusconismo mediatico capitalizzandolo in termini di voti.
E avendo, al tempo stesso, dato rappresentanza a un blocco sociale a tutti gli effetti (dalle partite Iva a vari settori delle piccole e medie imprese) che, da allora in avanti, si è massicciamente riconosciuto nel centrodestra, diventato di recente – in seguito ai nuovi rapporti di forza usciti dalle elezioni politiche del 25 settembre 2022 – un destracentro.
Fu proprio Berlusconi a dare vita alla formula della coalizione unitaria di centrodestra (all’inizio con la Lega di Umberto Bossi e Alleanza nazionale di Gianfranco Fini). E non vi è dubbio che il berlusconismo – considerabile anche alla stregua di un capitolo della lunga storia dell’americanizzazione della società italiana attraverso i media – costituì appunto il laboratorio della comunicazione politica italiana successiva, inaugurando il modello della (presunta) disintermediazione.
Proprio a partire da quella elaboratissima videocassetta del gennaio del ‘94, studiata al meglio per apparire “familiare” e colloquiale, e per bypassare ogni intermediazione giornalistica rivolgendosi direttamente ai cittadini-elettori attraverso la televisione generalista (privata, in primis, e anche pubblica).
Come avrebbero fatto successivamente tutti quanti, utilizzando i mezzi di comunicazione del proprio tempo: dal blog di Beppe Grillo ai tweet di Matteo Renzi e Carlo Calenda, sino alle dirette Facebook di Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
D’altronde, Berlusconi fu – analogamente a molti dei sopracitati – un populista, anche in questo caso nelle vesti di iniziatore e anticipatore. Tuttavia, e qui sta la differenza con le destre-destre odierne, un populista dell’avvenire e col «sole in tasca», che spargeva ottimismo e “miracoli italiani”.
Mentre i suoi successori idealizzano un ipotetico passato che non è mai davvero esistito, scommettendo vittoriosamente su un neopopulismo reattivo e rancoroso
E oggi, dunque, la spinta propulsiva del berlusconismo politico si è fortemente consumata, come logico per un partito di natura personale, a meno che, come suggerisce qualcuno, il «brand Berlusconi» non venga rilanciato da qualcuno appartenente alla famiglia, come il figlio Pier Silvio. Ma, dati i tempi, non si tratterebbe comunque di una strada “in discesa” (come, verosimilmente, pensa innanzitutto sua sorella Marina).
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