La figlia del soldato Rampazzo: «Mio padre, tre anni da internato»
Giornata della memoria: la storia di Mario Rampazzo, classe 1920 di Albignasego, internato a 23 anni nei lager nazisti, per bocca della figlia Luisa: «Il suo insegnamento? Non odiare mai nessuno»
Non avere paura. Non odiare. Suonano come comandamenti fioriti dall’orrore quelli che Mario Rampazzo ha trasmesso a sua figlia Luisa in quasi quarant’anni di vita ritrovata. Lui, soldato classe 1920 di Albignasego, internato a 23 anni nei lager nazisti. Lei, nata nel secondo dopoguerra, oggi guida volontaria nel Museo nazionale dell’Internamento di Padova. Testimone di quella voce amorevole dal buio.
Luisa, ci presenti suo padre.
«Nel vocabolario hitleriano era un “Imi”, un Internato militare italiano. Quando l’Italia firmò l’armistizio con gli americani, il 3 settembre 1943, era guardia di frontiera a Fiume, nell’ex Jugoslavia. I tedeschi lo hanno saputo subito, gli alti ranghi dell’esercito italiano solo l’8, dal maresciallo Badoglio. Cinque giorni costati la libertà a migliaia di giovani al fronte».
È lì che è stato deportato?
«In quel lasso di tempo l’esercito tedesco ha disarmato quanti più possibili militari italiani considerati traditori per aver sottoscritto quella resa. E così mio padre è stato portato in campo di concentramento».
Dov’è stato internato?
«L’ultimo periodo a Wistritz Starlag IV C, nell’ex Cecoslovacchia. I nomi dei precedenti luoghi non li ha mai ricordati. Nemmeno nei frammenti che ha subito confidato a mia madre, prima di chiudersi in un silenzio per anni impenetrabile. “Non ne voglio più parlare perché è troppo doloroso”, le disse».
A cosa deve la sua memoria storica?
«Con gli anni, invecchiando, sono affiorati i ricordi, pungolati anche dalla mia curiosità».
E i risentimenti...
«Quelli no. Mio padre mi ha sempre esortato a non prendermela con i tedeschi, ma con chi ha voluto la guerra. “Tutti i conflitti nascono dall’odio e ovunque esiste il lato positivo”, ripeteva».
Lì, ne ha saputi trovare?
«Passando per la stazione di Mestre, sul convoglio da Fiume, ha lasciato cadere dalla feritoia un foglietto con scritto che era prigioniero, e l’indirizzo di casa della madre. Quel biglietto è arrivato a destinazione grazie a una rete solidale di ragazzini».
Ha poi più sentito casa?
«Di rado, con le cartoline postali concesse ai militari. Ma erano censurate, non permettevano una comunicazione libera: il punto era far capire di essere vivi».
Che cosa significava essere detenuti Imi?
«Venir trattati peggio dei prigionieri di guerra, non essendo tali. Tradotto: niente aiuti della Croce Rossa, ad esempio».
Che mansioni svolgeva?
«Lavori di fatica. D’altronde la Germania aveva i suoi uomini al fronte».
Della lotta per la sopravvivenza, cosa lo ha segnato di più?
«Un’amicizia fortissima e il non trovare, più spesso, le parole. Mi ha sempre ribadito che i racconti non riescono mai a rendere la realtà di ciò che ha visto con i suoi occhi, né della fame provata. Per due anni, indescrivibile».
E l’amicizia?
«Era in baracca con un toscano di Prato, Loris Belli. Di dieci anni più vecchio e come lui Imi, sono diventati fratelli. E io, nata nel 1950, amica strettissima di sua figlia Rosalba, dopo che mio padre è andato in viaggio di nozze a Prato perché le famiglie si conoscessero. A lui devo molti aneddoti di papà».
Il più prezioso?
«Quel pettine gli ha salvato la vita... Una notte il campo è stato bombardato. Sentito l’allarme, Loris ha avvisato mio padre che inspiegabilmente si è pettinato prima di fuggire. Chi è uscito subito dalla baracca è stato centrato dall’esplosione».
Della liberazione, cosa le ha raccontato?
«Aveva 25 anni quando è tornato, pesava 40 chili. Con Loris sono andati a piedi a Dresda pensando di prendere un treno, ma la città era rasa al suolo. Su mezzi di fortuna hanno raggiunto Padova».
E poi?
«Una lenta ricostruzione. Papà si è trasferito a Padova, ha conosciuto mia madre Palmira e si sono sposati. Fino alla pensione, ha lavorato per un ingrosso di alimentari».
Qual è stato il suo più grande rammarico, e quale l’insegnamento?
«L’amaro in bocca lo ha avuto solo per le istituzioni italiane. Catturato come traditore mentre era in leva obbligatoria, quando è rientrato non ha avuto aiuti dal suo Paese. Lezioni? Non odiare. Non avere paura. Me l’ha ripetuto fino a che e è morto, a 83 anni».
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