Giovanna Botteri: «La Storia passa dalle vite di tutti. E va raccontata»

La giornalista triestina sarà una protagonista del Link Media Festival, in programma dal 6 all’8 settembre a Trieste: per la sua testimonianza riceverà il premio Crédit Agricole

Valeria Pace
Giovanna Botteri
Giovanna Botteri

«A Trieste la Storia ti tocca, attraversa la tua vita, le tue amicizie e il tuo quotidiano, e la città e i suoi abitanti vivono e pensano in un modo che ne è profondamente influenzato. Ritengo che questo abbia avuto grande importanza nel mio modo di raccontare quello che mi è capitato di raccontare: ho scelto sempre di riportare tutti i fatti alle nostre piccole vite, alla nostra quotidianità apparentemente banale». Giovanna Botteri, giornalista triestina e storico volto Rai, vede nella sua formazione in una città ferita in maniera particolare dalla storia del Novecento un elemento fondamentale che caratterizza la sua cifra giornalistica. Un racconto che verrà premiato il 6 settembre a Trieste con il Premio Crédit Agricole “Testimoni della Storia” nella serata d’avvio di Link Media Festival.

Botteri (che sarà anche una dei docenti della Link Academy, il cui bando per partecipare è aperto fino a domenica 1° settembre) di fatti storici da testimone sul campo ne ha raccontati moltissimi, da quelli drammatici, come la guerra in ex Jugoslavia e in Iraq, fino a quelli epocali, come quando da corrispondente negli Stati Uniti ha seguito la campagna e l’elezione del primo presidente nero della storia, Barack Obama. Era in Cina, inoltre, allo scoppio della pandemia da Covid-19. E di riconoscimenti ne ha già ricevuti tantissimi – è tra l’altro Cavaliere della Repubblica italiana e Légion d’Honneur della Repubblica Francese. Ma questo aspetto passa in secondo piano: il suo spirito rimane sempre quello di servizio e «di rispetto del pubblico».

Come si racconta la Storia?

«La sfida è far capire che tutto quello che succede nel mondo inevitabilmente ci riguarda, riguarda la nostra vita e il nostro modo di vivere. Non ci riguarda solo quello che accade vicino a noi. Raccontare la guerra in Ucraina significa spiegare perché le bollette e l’inflazione aumentano. Insomma, la storia va narrata anche nelle sue pieghe più quotidiane, e tutto questo va fatto in modo chiaro e comprensibile. Ma essere testimoni della Storia significa anche accettare di farsi ferire».

Parla della guerra, le sofferenze a cui ha assistito e i pericoli anche personali che ha affrontato?

«Una giornalista del servizio pubblico deve mantenere neutralità professionale sui fatti, senza farsi influenzare dalle proprie idee. Ma io sono fortemente convinta che la guerra sia un disastro per l’umanità e che raccontarla sia il modo migliore per togliere l’aura romantica che in qualche modo la circonda per chi non c’è mai stato. È solo distruzione e odio. È importante raccontare come il compromesso, cercare la strada dell’accordo, un aspetto meno mitizzato sia sempre importante. Questo è un messaggio che dalla guerra dovrebbe arrivare anche nella vita di tutti i giorni, anche nella politica se vogliamo».

Dice spesso che l’essere donna ha avuto un ruolo importante nell’impostazione del suo racconto...

«Quando ho cominciato a fare la corrispondente di guerra dai Balcani, la presenza delle donne reporter di guerra era incredibilmente esigua, era sempre stato uno spazio degli uomini. Si pensava: chi meglio di un uomo che ha fatto la guerra la può raccontare? Ma questa è una visione riduttiva, la guerra non è soltanto la trincea, è anche – forse soprattutto – la casa bombardata, le donne che vanno disperate al mercato per trovare qualcosa da mangiare, è cercare di non far uscire di casa i bambini per proteggerli dalle schegge. La presenza delle donne nel racconto ha cambiato radicalmente la prospettiva: oggi non si può immaginare di raccontare una guerra senza parlare dei profughi, dell’esperienza dei civili».

Come si racconta la Storia in mezzo alle bombe? La morte la sfiorò nel 2001...

«Dovevo essere sullo stesso convoglio di Maria Grazia Cutuli, la collega del Corriere della Sera che fu uccisa in Afghanistan assieme ad altri tre giornalisti sulla strada da Jalabad a Kabul. Mi chiamò mia figlia perché aveva bisogno di me, ho scelto la cosa più importante e mi ha salvato la vita. Pure nella guerra dei Balcani sono morti decine e decine di giornalisti. Cerchi di essere il più prudente possibile ma ti rendi conto del fatto che il destino decide sopra la tua testa. Devi avvicinarti al fuoco, alla linea rossa da non valicare il più possibile. Il problema è che la linea rossa è invisibile, e una volta che la vedi è già troppo tardi. In questo l’invio sui fronti di giornalisti molto giovani e inesperti, magari freelance che lavorano con meno coperture, è drammatico. Sia per i rischi che corrono sia perché sono più facili da manipolare. Vanno difesi con forza e sostenuti».

Il rischio manipolazione come si affronta?

«È un momento in cui c’è una fortissima pressione politico-ideologica sull’informazione, a partire dalle fake news. Mentre al tempo della guerra in Vietnam, l’inviato aveva anche due giorni per preparare un reportage, ora ci sono colleghi che fanno collegamenti ogni due ore. Controllare le fonti sul posto viene meno, alla fine ti appoggi magari su notizie che ti danno da Roma, che i colleghi hanno letto su siti o agenzie. È un circolo vizioso pericolosissimo perché dà spazio a fake news e propaganda. Questo genera confusione e toglie autorevolezza. Secondo me sarebbe utile tornare a un doppio binario dell’informazione: da una parte la notizia secca e immediata, dall’altra l’approfondimento che non può limitarsi al dibattito ma all’andare a cercare le ragioni dei vincitori e dei vinti in modo da dare a tutti gli strumenti per comprendere e dare un giudizio».

Il giornalismo oggi è in crisi?

«Penso che i ragazzi che non leggono più i giornali o guardano la tv abbiano comunque voglia di capire e informarsi, attraverso altri canali. E su questo non bisogna essere giudicanti, i social non sono l’origine di tutti i mali. Ci sono alcuni progetti seguitissimi come i podcast o i documentari, penso al successo di quello Netflix su Yara. C’è un segmento fino a 35-40 anni d’età che può essere conquistato, ma per farlo devi essere autorevole e serio. Sono un’ottimista: non dobbiamo arrenderci ma essere sempre più bravi, più presenti, più puliti e onesti, e rispettare sia chi ci legge e chi ci guarda sia chi non lo fa».

Da giugno è in pensione, ma ha già un impegno con La7. Quali sono i prossimi progetti?

«Su La7 lavorerò con Massimo Gramellini, un’avventura iniziata quando il suo programma era sulla Rai, tornerò a viaggiare e a fare l’inviata. Ma sono aperta ad altri progetti con chiunque abbia ancora voglia di raccontare questo Paese e questo mondo. Io che ho fatto una lunga carriera in tv, sono interessata ad andare incontro a un pubblico che l’ha abbandonata».

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