Massimiliano Alajmo, cinquant’anni e tre stelle Michelin
Il sesto senso in cucina, l’effetto Masterchef, vegani e carnivori. Lo chef padovano si racconta: «Mi hanno offerto la televisione, ho detto di no»

Massimiliano Alajmo compie 50 anni il 6 maggio del 2024. Appartenente ad un'antica famiglia di ristoratori veneti, dopo il conseguimento del diploma dell'istituto tecnico alberghiero ad Abano Terme, nel 1990 approfondisce la sua esperienza presso il ristorante “Ja Navalge” di Alfredo Chiocchetti a Moena, nel 1992 presso l'”Auberge de l'Eridan” di Marc Veyrat a Veyrier du Lac d'Annecy e nel 1993 a “Les Prés d'Eugénie” di Michel Guérard, a Eugénie les Bains.
Nel 1993 rientra in Italia e con il fratello Raffaele Alajmo (in sala) si dedica al ristorante di famiglia, "Le Calandre" a Sarmeola di Rubano, che nel 1996 otterrà la seconda stella Michelin (la prima stella Michelin fu assegnata a sua madre, Rita Chimetto, nel 1992). Nel novembre del 2002 si aggiudica la terza stella, divenendo così il più giovane cuoco nella storia ad aver ricevuto tale riconoscimento
Ascolta il podcast

L’intervista che potete leggere qui sotto è la versione molto… breve di una intervista di un’ora, trasformata in un episodio della nostra serie podcast intitolata “Fuori dal Comune”. Potete ascoltarla qui su Spreaker
***
Leggi l’intervista

Buongiorno Chef, ormai sono 50 anni, una cifra importante.
«Mi sono immaginato una clessidra, capovolgendola capisci meglio la tua relazione con il tempo e impari a dargli un valore. Una presa di coscienza».
E qual è la sua relazione con il tempo?
«Dipende dall’intensità con cui lo affronti. Attraversarlo è diverso dal viverlo».
Lavorare per vivere o vivere per lavorare.
«La differenza tra lavoro e mestiere è molto sottile ma determinante. Io credo di aderire al mestiere, a quel punto non c’è separazione netta tra ciò che fai o ciò che senti. Un cuoco lo è anche quando dorme».
In quale ambiente familiare è cresciuto?
«Mi sento privilegiato, mi hanno sempre protetto e appoggiato. Ho respirato gastronomia dai primi momenti, dagli aspetti salutistici a quelli più professionali. L’esempio virtuoso di una famiglia dedita al buono».
Ma di cosa era ghiotto da bambino?
«Mia madre ci ha sempre servito un’insalata all’inizio del pasto: pranzo e cena, sempre. Me la sono fatta piacere. Ma già usava condimenti come aceto di mele e salsa di soja, chi li usava a quei tempi?».
Non mi ha risposto…
«Mi sono subito appassionato alla pasticceria, facevo i biscotti con la mamma, le infornate delle sfoglie. Ricordo il gusto del mestolo di legno quando cucinavamo le creme pasticcere. E l’angoscia dopo il disastro di Cernobyl, quando sembrava non ci fosse più latte».
Ma la facevano avvicinare al ristorante, i suoi?
«Sì sì, ero la mascotte. Sa, coi miei fratelli rubavano i biscotti».
E le merendine?
«Bandite, come tutti i cibi conezionati. Ho mangiato i primi gelati confezionati perché mi avevano tolto le tonsille. Che buoni…».
Ma a scuola cosa portava?
«La patata americana nella carta stagnola, le frutte, lo yoghurt fatto in casa, le brioche fresche…».
I cinque sensi applicati alla sua cucina?
«Il tema della sensorialità è sconosciuto, lo frequentiamo senza badarci. Il croccante ad esempio è una sensazione acustica. La vista non è legata solo al cromatismo ma anche alle forme geometriche; ad esempio, un piatto rotondo mette in evidenza le note dolci. E i suoni stimolano certe amplificazioni. L’olfatto è magico, il profumo ti porta in una realtà quasi trascendentale, insondabile. E’ la parte spirituale, invisibile. Il cibo ci parla, si racconta. La degustazione è la sintesi che arriva al sesto senso. Con la lentezza che serve».
«Esci da lì che hai ancora fame», recita un certo snobismo al contrario.
«Di che fame stiamo parlando? Se è la sazietà, mi sento di contraddirlo».
Tre stelle Michelin dal 2003, più difficile conquistarle o mantenerle?
«Non conosco i meccanismi, sinceramente. E’ difficile mantenere una tensione propositiva. Oggi ci sono mille classifiche. Bisogna ascoltare, imparare e cercare di evolvere, restando fedeli ai propri principi».
Più studio o talento?
«Noi lo definiamo l’ascolto. Da qui nasce una interpretazione».
E il processo creativo?
«Un’emozione, una suggestione, una percezione. A volte c’è un innesco preciso, che so, l’osservazione di una materia».
Che rapporto ha con la sua brigata?
«Cerco il sorriso, sempre. L’armonia ha un gusto. Spesso c’è musica, in cucina. Ho una squadra giovane e meravigliosa».
Poche donne stellate, in Italia una su dieci.
«Sono aumentate. La mia insegnante è stata mia madre: sfondi una porta spalancata. Non vedo limiti».
E i clienti? Chissà quanti aneddoti…
«Ah abbiamo di tutto, veramente. Cose meravigliose, cose tristissime. Ma sai, ho il segreto professionale, come i medici (ride)».
Quelli che fotografano ogni piatto?
«Lo posso capire, gente che arriva da ogni parte del mondo. L’importante è che viva il momento».
Gli influencer che cercano una cena a scrocco per un video su instagram.
«No, se ascolti queste cose qui non è più finita».
Lei e suo fratello Raf: così diversi, così simbiotici. Ma non litigate mai?
«Ah certo che sì, è la parte più divertente. Ma ci vogliamo anche tanto bene».
Si impara dagli errori, me ne dica uno vostro.
«Amor a Milano, lì abbiamo fatto un errore pesante, anzi più errori insieme».
Il cibo in tivù?
«Pochi programmi si occupano di cucina reale. Spesso è solo show. Vedo il cibo trattato meglio delle persone, oppure disprezzato».
Le hanno proposto programmi?
«Sì, più volte. Ma la dignità non ha prezzo. Non vedo cose interessanti, ecco».
Come si pone verso i movimenti no carne?
«Noi rispettiamo i vegani, ma loro devono rispettare chi ha una visione diversa dalla loro. Nel momento in cui mangi la carne, certo, ci vuole consapevolezza. Noi serviamo carni di animali che vivono all’aperto, alimentati in modo naturale».
Auguri chef.
Grazie.
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova