Saverio Costanzo racconta il suo film «Finalmente l'alba» con budget stratosferico
Il caso Montesi come fonte di ispirazione: «La serie tv ti prende, ma un film ti fa volare e il pubblico ha capito questa differenza»

Uno dei maggiori incassi del cinema italiano, “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, e “Finalmente l’alba” (da poche ore nelle sale, ) il nuovo film di Saverio Costanzo (presentato in anteprima alla Mostra del Cinema lo scorso settembre), che con i suoi quasi 30 milioni di budget è uno dei film più costosi mai realizzati nel nostro Paese, contengono nei loro titoli parole che sembrano profetizzare, a quattro anni dal ricordo della chiusura dei cinema, la fine di questa lunga notte delle sale cinematografiche.
Entrambi raccontano il nostro tempo muovendosi dentro storie ambientate tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Citano il cinema del passato, portano la firma di Cinecittà, e finiscono entrambi con le luci di un nuovo giorno ricordandoci che ancora una volta il cinema non è morto ed è pronto a guardare al futuro.

«Cinque anni fa non si parlava altro che di serie tv. Io che di serie ne ho fatte, e mi considero anche un fan di quel modo di raccontare, trovo che una storia sviluppata per la televisione non ti consenta mai di volare veramente». Saverio Costanzo spiega così le ragioni per le quali, secondo lui, il cinema resiste alle minacce del nostro tempo.
«Quello che un film ti propone è diverso. È tutto un altro linguaggio. Probabilmente la gente dopo essersi assuefatta a una scrittura che ti prende per mano e ti conduce dove vuole lei ha sentito nuovamente il bisogno di partecipare a un’esperienza che richiede allo spettatore un grado maggiore di responsabilità. Il film arriva sullo schermo e quella luce poi ritorna a te che lo guardi e lo completi. Spesso nelle serie tv la visione si subisce proprio grazie a una scrittura sopraffina che ti aggancia e non ti lascia mai, e questa qualità così seducente alla lunga può risultare un limite, che il cinema non ha».
In “Finalmente l’alba” lei sceglie come punto di partenza il delitto di Wilma Montesi. Una giovane donna che cercava nel cinema un sogno e un riscatto, e invece in certe pieghe di quel mondo ha trovato la morte. Poi il progetto è cambiato. Come mai?
«L’idea iniziale era quella raccontare l’omicidio Montesi, il primo caso di assassinio mediatico, avvenuto nell’Italia del 1953. La stampa di allora speculò su quel dramma concentrando l’attenzione verso la ricerca dei colpevoli, quasi dimenticandosi che la vittima era una semplice ragazza di 21 anni. Poi, mentre scrivevo qualcosa è cambiato e la figura di Wilma, che è richiamata da un cinegiornale dell’epoca, è stata sostituita da Mimosa. Raccontare chi era quella ragazza il giorno prima della morte non mi sembrava potesse essere di alcuna utilità verso lo spettatore. E allora mi è venuto in mente il personaggio di Mimosa ovvero qualcuno che ha seguito le tracce di quello stesso sentiero ma che in qualche modo è riuscito a cambiare l’epilogo. Attraverso lei tentiamo di dare dignità alla memoria di Wilma Montesi».
Lei spesso ha portato sullo schermo libri di successo, mentre in questo caso, come in “Private” suo film d’esordio, ha scritto una sceneggiatura senza partire da un testo altrui. Si è confrontato con la serialità televisiva in una produzione importante come “L’amica geniale”, ha realizzato film con grandi e piccole risorse. Come si muove dentro questa assoluta libertà?
«Per me fino ad ora è stato molto più semplice fare il mio film nascondendomi dietro i personaggi e la storie di qualcun altro. Quando ho fatto “In memoria di me” c’era un romanzo, “Il Gesuita perfetto” che ho letteralmente riscritto per il cinema; “Il bambino indaco” di Marco Franzoso l’ho ripensato cercando di mantenere più la storia che i personaggi. Con “La solitudine dei numeri primi” ho rivisto la struttura lineare del romanzo e con la complicità di Paolo Giordano abbiamo lavorato su una sorta di continuo flashback. Ogni volta cerco di adattarmi alla storia che ho per le mani e questo riguarda anche il budget. A me piace l’idea di poter alternare, dove mi concedono di farlo, una produzione più leggera a una più importante. “Hungry Hearts” era una scommessa. In quel momento, dopo essere stato impegnato tre anni nella serie televisiva “In Treatment” avevo voglia di avventurarmi in qualcosa che potessi fare da solo e con meno di un milione di euro. In questo caso, con “Finalmente l’alba” ho scritto una storia che aveva una visione più grande. Sono arrivati i co-produttori, sono arrivati più soldi e il progetto si è ingrandito. Ma non cambia molto il mio modo di lavorare. Io scrivo una sceneggiatura, e poi c’è una produzione che decide quanto rischiare in quel progetto e io mi adatto».
In questi mesi si sono visti film dalla durata decisamente importante. Nel suo caso, la versione che arriva sugli schermi sarà più breve di 20 minuti rispetto a quella presentata alla Mostra del Cinema. Come mai questa riduzione?
«Sono fortunato perché non ho avuto imposizioni da nessuno. Sono io che a Venezia, vedendo il film per la prima volta in sala con il pubblico, ho sentito il bisogno di alleggerirlo. Ridurre non vuol dire necessariamente cambiare o tagliare qualche sequenza. Quella sensazione mi ha riportato in sala di montaggio per asciugare più che per togliere. Ci sono tanti piccoli alleggerimenti e confrontandomi con chi ha visto entrambe le versioni mi sono sentito dire più volte che non ci si accorge della differenza. Per quanto mi riguarda sono molto soddisfatto di questa versione».
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