Tra diritti e presunti vincoli: perché l’Italia non vuole il Mes

È passato così tanto tempo da quando più forze politiche repubblicane hanno dichiarato guerra al Fondo salva-Stati - il Mes, in breve - che molti faticano a ricordare come, e perché, questa storia è cominciata. Ciò che è chiaro, a questo punto, è che ci sono un francese, un tedesco, uno spagnolo e sedici altri europei che vorrebbero rafforzare il meccanismo di stabilità dell’Eurozona.
Mentre c’è un italiano che, per ragioni tutte sue, impedisce loro di andare avanti, protestando per essere stato isolato. Segue che il francese, il tedesco e lo spagnolo e gli altri sono indispettiti e s’interrogano su come fare pressione sull’italiano, che giura di non voler mollare e pensa a sua volta a come rispondere al fuoco probabile. Potrebbe essere l’inizio di una barzelletta, ma non lo è. Anche perché non fa ridere.
Il Meccanismo europeo di stabilità nasce nel 2012 come assicurazione ulteriore contro i rischi di crisi finanziaria. Era la risposta allo spaventoso caos dei precedenti cinque anni, il tentativo di attribuire un contenuto tangibile al «Whatever it takes» di Mario Draghi e salvare l’euro. Il terremoto dei debiti sovrani aveva dimostrato l’incompiutezza dell’Eurozona, unita a metà e afflitta da evidenti debolezze: bisognava rafforzare gli argini. Il Mes entra così in scena, indubbiamente non perfetto, figlio dell’urgenza e del compromesso. Lì per lì, c’è pure chi protesta perché la sua dote è insufficiente.
Il Fondo salva-Stati nasce con un capitale sottoscritto di 704,8 miliardi, di cui 80,5 versati. La capacità di intervento è di 500 miliardi. L’Italia ha sottoscritto il Meccanismo per 125,3 miliardi, versandone 14,3. I diritti di voto dei membri del Consiglio sono proporzionali alla quota detenuta dai rispettivi Paesi. Germania, Francia e Italia superano il 15%, il che apre la possibilità di esprimere un veto sulle decisioni “urgenti”.
Non è successo quando il Mes si è attivato per Grecia, Portogallo e Spagna, ai quali sono stati prestati miliardi in cambio di riforme severe. Non era un cappio al collo. Come in ogni finanziamento, chi paga preferisce essere sicuro che ci siano le condizioni per avere indietro i propri soldi, a maggior ragione se si tratta di denari dei contribuenti.
Nella retorica di una parte della politica nazionale il Mes è l’affamatore rigorista dei popoli, l’eurocrate che stritola le libertà delle nazioni. Uno può provare a riflettere che 19 Paesi su 20 dell’Eurozona, tutti diversi e pluralisti, non ritengono sia così, ma tant’è. La distanza resta e si è amplificata con la riforma avviata del Meccanismo, pensata per consolidare la protezione da eventuali crisi bancarie sistemiche.
Il progetto, la «nuova eurofollia» secondo fonti di governo italiano, è stato accusato di tutto. Per la Commissione Bilancio di Montecitorio la versione modificata non garantisce abbastanza peso al Parlamento nel monitorare eventuali aumenti di capitale; in realtà, le nuove regole sono uguali alle vecchie e ogni versamento ulteriore andrebbe approvato dalle Camere, poiché costituisce spesa pubblica aggiuntiva.
Si è detto che il Mes modificato implicherebbe una ristrutturazione automatica del debito nel caso in cui l’Italia chiedesse un aiuto e che la riforma del Mes aumenta la probabilità di un fallimento dei titoli sovrani: «falso» rispondono in molti, fra cui Bankitalia. Si è detto poi che non ci serve, il che è auspicabile e pure probabile. Le nostre banche stanno bene, tuttavia se ne saltasse una oltralpe, ballerebbe anche chi è in salute. Soprattutto se opera nel Paese col terzo debito planetario.
Proprio la situazione mai serena dei conti pubblici invita a ragionare. Accettare la riforma del Mes non implica di doverne innescare l’intervento. Non scatta nessun nuovo obbligo di contribuzione. Allora perché impedire all’Eurozona di firmare una polizza? I diciannove della quasi barzelletta sono i nostri partner della moneta unica.
L’Italia ha ogni interesse a fare bene i compiti a casa (per i cittadini, anzitutto) e tenere buone relazioni coi sodali a dodici stelle, gli stessi con cui dovremo lavorare per edificare un’Europa diversa e più forte, gli stessi che dovranno valutare a Bruxelles la qualità delle nostre riforme e del nostro Tesoro. È pienamente legittimo che un governo decida di procedere da solo sulla strada in cui crede; è democrazia anche votare contro il Mes. Bisogna però che non sia un capriccio: occorre essere consapevoli dei rischi, delle minori garanzie e delle maggiori antipatie che la scelta finirà per comportare. Si può fare, se lo si ritiene. A patto d’esser certi che ne valga la pena.
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