Addio Franco Volpi, "La semplicità il suo segreto"
Da Nietzsche a Heidegger un esegeta finissimo dei grandi tedeschi meglio conosciuti grazie alle sue traduzioni. Antiaccademico capace di chiarezza esemplare
di Paolo Coltro
di Paolo Coltro

Addio al filosofo Franco Volp
Dio, come scriveva bene. E come pensava chiaro. Franco Volpi, prima ancora della sua vastissima cultura, era una testa eccezionale: lo diciamo nel modo più semplice, più diretto, più comprensibile, fuori di ogni accademia. Cercando, sicuramente senza riuscirci, di adoperare quel linguaggio così alla portata di tutti che lui usava con una naturalezza disarmante. E’ prerogativa delle grandi menti: dire pane al pane, anche se il suo pane erano Heidegger e Nietzsche, esaltare nella semplicità le idee complesse, srotolare la matassa del pensiero in quel filo visibile, tangibile, che tutti, anche noi ignoranti, possiamo toccare e seguire.
Affascinante Franco Volpi: un filosofo che ha scritto per i giornali meglio di qualsiasi giornalista. Affrontava i temi alti della cultura partendo da un aneddoto, da un particolare curioso: che so, scrivendo di Simone Weil, prima di addentrarsi nelle riflessioni della filosofa sull’Assoluto, raccontava dei nomignoli che le davano all’università, tipo “la vergine rossa”: deprecando, ben s’intende. Pensieri profondi in animo leggero, questo era Franco. Glielo leggevi in faccia, perché anche l’anatomia era conforme: una gran fronte alta e spaziosa, un viso raccolto che con un niente si increspava in un sorriso accennato ma convinto, gli occhi che riuscivano a brillare dietro gli occhiali.
Era così anche al liceo Pigafetta di Vicenza, un anno più avanti di noi del ’53, ci si incrociava all’intervallo e nella marea di stupidaggini, di facezie, di scherzi stupidi, lui era lì a spiccare perché era sveglio. Era il prototipo non dello studente bravo, ma del ragazzo che ha una marcia in più: mai pensato a Franco come un secchione, macchè: socievole, arguto, bruciante nelle inconsapevoli gare di intelligenza. Ti ritrovavi ad ascoltarlo così, naturalmente: tu zitto e lui a dire, a rendere ancora più digeribili le belle lezioni di Giuseppe Faggin.
Faggin, vecchio monumento della filosofia insegnata, deve aver contato anche per lui, deve avergli fatto scattare la scintilla di un amore travolgente per la storia del pensiero. E per l’anziano professore, Franco Volpi dev’essere stata una di quelle soddisfazioni che illuminano gli anni di scuola, in mezzo a zucconi e svogliati. Franco era dunque un ragazzo sveglio di cui s’erano accorti in molti, anche tra di noi quasi coetanei. Già allora era chiaro: una bella testa. E poi la misura: sorrideva senza lasciarsi andare alla sghignazzata sgangherata, viveva la giovinezza come tutti, ma depurata degli eccessi stupidi; raramente di cattivo umore: e dev’essere stata una scelta cosciente, arrivata dritta dritta dall’idea di vita che Franco aveva, e che ha dimostrato di mettere in pratica fino a lunedì.
Lunedì: l’incidente in bici, la caduta, il colpo alla testa sull’asfalto. Se non fosse troppo duro, e doloroso, pensarlo e scriverlo, viene da dire che Franco è morto quando è morta la sua testa. Lui era la sua testa, molto più di quanto questo non sia per altri umani. Lì la sua vita, e da lì se n’è andata. Girava in bici sui colli Berici, libero perfino dai documenti. «Anche se la vita non è bella, sta a noi cercare di renderla tale»: parole sue, nell’ultimo articolo su Repubblica uscito venerdì scorso: parlava dell’attacco di papa Ratzinger a Nietzsche. Dipanava, anche in quel caso, il filo della comprensione, e l’impressione è che, senza dare tante lezioni, cercasse di far capire - bonariamente - al papa quel che in Nietzsche c’è di buono.
Grande Franco: la sua chiarezza interiore diventava magicamente osmotica, eccola lì la semplicità, una strada in controtendenza rispetto a tanti altri suoi colleghi filosofi. Nemmeno un parolone, mai l’inerpicarsi faticoso lungo le astruserie lessicali, mai il farsi corazza di quei termini tedeschi che a scriverli finisci l’inchiostro: no, tutto chiaro, tutto semplice, i concetti esposti come se si stesse parlando di un’amica o dell’ultimo film. E un’idea limpida della filosofia: «La filosofia è un inventario di pensieri nel flusso della vita» ha scritto in un pezzo ancora inedito per il “Giornale di Vicenza”.
Non tanto la costruzione di un sistema: niente gabbie dogmatiche, niente accademismi, ma intelligenza libera. Non era senza senso che uno così andasse in bicicletta sui colli il lunedì di Pasquetta. Ma era a suo agio anche all’Ecole Normale supérieure a Parigi, A Laval in Québec, a Poitiers e Nizza, e soprattutto nella sua amata Wurzburg: lì dove aveva conosciuto sua moglie. Ci andava da appena laureato, quasi un cervello in fuga: Vicenza-Wurzburg, un andirivieni, mesi di apprendistato e passione filosofica, in quell’aria dove evidentemente entrava meglio in sintonia con Heidegger. Nessuno meglio di lui ha scandagliato il filosofo tedesco: ma non è rimasto là, ha riportato in patria, al Bo, i suoi studi profondissimi. E non è mai diventato un accademico nel comune senso del termine: niente potere, niente sovraesposizioni.
Dicono: non è mai riuscito ad avere nemmeno un ricercatore. Però, in queste ore in cui il suo cervello - la sua bella testa - si spegneva, affiora nei commenti che probabilmente era il più bravo. Il miglior filosofo in Italia. «Era davanti a tutti», scrive il Corriere. Bisogna che quello che è successo non ci faccia odiare i giri in bicicletta.
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