Violenza tra i giovani, parla la psicologa Pizzoferro: «Non sanno gestire la frustrazione»

La vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi del Veneto analizza il disagio giovanile in relazione agli episodi avvenuti nella regione, ultimo in ordine di tempo l’omicidio di Francesco Favaretto vittima di una baby gang

Enrico Ferro
Violenza giovanile a Treviso (Fotofilm)
Violenza giovanile a Treviso (Fotofilm)

Fortunata Pizzoferro, psicoterapeuta e vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi del Veneto, da dove arriva questo disagio dei giovani di oggi?

«C’è un disagio che arriva da una società che viaggia a livelli più veloci del passato, con modifiche sostanziali nel rapporto tra l’individuo e i propri desideri».

In che senso?

«Un tempo prima di ricevere una gratificazione bisognava attendere, era anche molto più comune dover accettare delle frustrazioni, fin dall’infanzia. Questa invece è una società che ai bambini dà tutto subito, non li allena alla frustrazione. Quando si scontrano con i limiti della scuola o della relazione tra pari, si scoprono disarmati».

Però molti sono giovani di seconda generazione, che non sono cresciuti proprio tra gli agi.

«Infatti mi riferivo alla maggior parte degli adolescenti, i figli dei migranti sono una minoranza. Per loro ci sono cause specifiche: si sentono esclusi dal gruppi sociali e l’aggressività è rivendicazione. Le separazioni alimentano la conflittualità».

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Quanto incide la droga in queste dinamiche?

«La droga rappresenta l’illusione di poter avere una gratificazione subito: nel momento in cui l’altro è frustrante, io ho una relazione con una sostanza che mi dà gratificazione immediata. La droga è una fuga dalla fatica della relazione e dalle regole della società. Ed è anche una fuga regressiva, si torna in uno stato infantile».

Dunque la violenza che esplode nelle piazze è figlia di tutto questo?

«Sono fenomeni complessi che non hanno un’unica causa. Questo è uno. Per esempio nei fenomeni di piazza conta molto anche la visibilità. I giovani sanno che se fanno una rissa attireranno lo sguardo dell’adulto. Vogliono essere visti ma la modalità è sbagliata. Loro però sentono di non avere alternative».

Davvero il desiderio di visibilità è alla base di queste dinamiche?

«Un altro fattore importante è l’incapacità di mettere un pensiero tra il desiderio e l’azione: appena qualcuno mi risponde male o mi assale, appena ho una frustrazione, io non penso ma metto in campo l’agire immediato. Come nei videogiochi o gli acquisti su Amazon».

Esiste una cura?

«La cura deve essere su più livelli. Servono interventi sulle relazioni ma anche sugli spazi relazionali, dove gli adolescenti possono incontrarsi e sperimentarsi tra pari».

La socialità, oggi, è appannaggio dei bar.

«Purtroppo la socialità oggi la fanno molto i social network ma c’è l’abitudine a relazioni usa e getta. Nel momento in cui con una persona ho un problema, semplicemente la cancello. Invece nella vita reale c’è una persona dall’altra parte, una persona che devo guardare negli occhi, aspettando un tempo per la risposta».

Che adulti potranno essere questi ragazzi di oggi?

«Dipende molto da quello che faremo per aiutarli nella crescita. Hanno bisogno di educatori, famiglie, coach nello sport. Non si può bollarli e basta. Vanno compresi e accompagnati nella crescita».

Lo psicologo può essere una chiave o c’è ancora uno stigma?

«Lo psicologo per le giovani generazioni è già sdoganato. Gli adolescenti chiedono sostegno e ne parlano tra loro senza remore. Sono gli adulti che hanno ancora pregiudizio».

Se lei dovesse dare un consiglio ai genitori di questi ragazzi?

«Direi di non chiudersi per vergogna, pensando di essere colpevoli. Siamo tutti nella stessa barca. Confrontiamoci e condividiamo tutte le difficoltà, anche con l’aiuto di professionisti». 

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