Calcio femminile, il sogno americano di Margherita Giubilato: dal Veneto agli States per amore del soccer

PADOVA. Chi l’ha detto che quello americano può essere solo un sogno? C’è chi lo sta vivendo davvero. Margherita Giubilato, calciatrice classe 2000 originaria di Martellago, se lo tiene ben stretto il suo sogno americano. Proprio come nei film hollywoodiani in cui si vedono i suoi coetanei alle prese con la scelta del college e la possibilità di vivere la propria passione sportiva di pari passo con il percorso scolastico. Margherita è una studentessa “international”, ovvero rappresenta una di quelle atlete straniere alle quali è stata data la possibilità di formarsi nei college americani grazie a una borsa di studio sportiva. E per le calciatrici come lei l’America è la patria del soccer.
Come è nato questo sogno?
«Grazie a mamma e papà. Nella primavera 2019 giocavo in Serie A al Verona e frequentavo la quinta superiore. Mi ha sempre stuzzicato l’idea di poter studiare anche all’estero, così ho partecipato alle selezioni per entrare nelle università americane» .
Una scelta non consueta per una giocatrice che, a 19 anni, aveva già raggiunto la Serie A, vestendo anche le maglie azzurre giovanili. Ma occorre fare un passo indietro.
«Mi sono appassionata al calcio grazie a mio fratello maggiore che ha militato per anni nei dilettanti veneziani. Ho cominciato a giocare con i maschi e a 14 anni sono arrivata al Padova in Serie B. In biancoscudato ho esordito tra i grandi e guadagnato le prime convocazioni con le nazionali giovanili. Sono un trequartista o esterno che si ispira a Kakà e fa della velocità il proprio punto di forza. A 17 anni mi chiama il Verona ed esordisco in A».
Sembra il percorso perfetto di una predestinata del pallone. Eppure c’è qualcosa che ancora non quadra.
«Mentre mi preparavo per gli esami di maturità sentivo che mancava qualcosa. I miei genitori mi hanno spinto a provare una strada all’estero e con l’associazione “Yes we college” ho partecipato a un provino, organizzato per gli osservatori americani, con tutte le migliori giovani calciatrici italiane».
La chiamata è arrivata subito?
«Funziona come in America. I college ti seguono, se sono interessati chiedono ulteriori filmati e poi ti fanno le offerte. L’istruzione universitaria americana è costosissima, per questo sono necessarie le borse di studio, altrimenti le rette arrivano a costare quasi 50mila dollari annui. Ho ricevuto varie offerte e ho scelto quella che mi sembrava migliore a parità di costi e livello sportivo: la University of Kansas ha una squadra di calcio in Division I e mi ha offerto una borsa di studio al cento per cento».
Mai avuto ripensamenti? «Certo. Un mese prima non volevo partire più. Sarei andata dall’altra parte del mondo, senza conoscere nessuno né masticare bene la lingua. Avevo paura, meno male che mi ha madre mi ha convinto. “Dai, al massimo fai solo i primi quattro mesi poi a Natale torni”, mi diceva. Non smetterò mai di ringraziarla per avermi fatto salire su quell’aereo».
Si è subito innamorata dell’America?
«È bastato poco. Una volta arrivata ho frequentato la classe di inglese necessaria per raggiungere un livello di lingua standard. Ho scelto la facoltà di business e mi sono trovata bene. E poi i campus sono meravigliosi, le aule, le biblioteche giganti, migliaia di compagni da ogni parte del mondo».
E il calcio?
«Il top. Le strutture sportive universitarie sono di un livello che in Italia forse non si vede nemmeno in Serie A. A Kansas il fiore all’occhiello è il basket, con un palazzetto che durante le partite si riempie fino a 16mila spettatori. Quando ti alleni hai a disposizione uno staff di dieci persone pronto a soddisfare ogni esigenza».
Che livello calcistico ha trovato?
«Il divario fisico con chi arriva dall’Italia è notevole. Le calciatrici americane, d’altronde, sono abituate fin da piccole ad allenarsi quattro volte a settimana. Ma è tutto il sistema scolastico che favorisce la crescita sportiva. Quando andavo alle superiori qualche professore storceva il naso se uscivo prima perché avevo la partita. Negli Usa lo sport si fa a scuola ed è tutto organizzato».
Com’è andata la prima stagione?
«Il campionato è compresso in meno di tre mesi e l’abbiamo disputato in autunno. Siamo arrivate fino ai quarti di finale nazionali, ho giocato molto e sono cresciuta».
Nessun pregiudizio sulle ragazze che giocano a calcio?
«Semmai è il contrario. In America gli sport maschili sono altri e i ragazzi che giocano a calcio sono poco considerati. Per una ragazza, invece, il soccer è molto cool».
Cosa le piace degli Usa e cosa le manca dell’Italia? «Dell’America amo i paesaggi, perché si trova tutto ciò che esiste al mondo: dalla natura più selvaggia all’urbanizzazione totale. Mi manca, invece, l’abitudine tutta nostra di passeggiare con le amiche. Qui spesso non c’è la tradizione di andare in centro, fare un giro e bere qualcosa. Se ci si trova lo si fa per fare qualcosa di specifico. Anche per questo la scorsa estate ho cambiato college».
Dove è andata?
«All’università del New Mexico. Albuquerque è una città abbastanza grande e la squadra è forte. Il campionato partirà in primavera, ora sono in Italia perché seguo le lezioni online, a gennaio torno in America».
Sogni futuri?
«A causa della pandemia le università hanno concesso un anno in più agli studenti e spero di sfruttarlo per fare un master. Giocare nella lega professionistica americana sarebbe il massimo, ma non mi illudo perché è molto selettiva. Mi piacerebbe giocare in Spagna o tornare in Serie A sognando di rivestire l’azzurro». —
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