Cambiamento climatico in Veneto, l’allarme dell’idrologo: «Quando si è scatenata Vaia c’era una situazione simile»
Marco Borga, professore di Idrologia: «Per cambiare bisogna agire sull’agricoltura»
PADOVA. «Quando quattro anni fa si è scatenata la tempesta Vaia c’erano esattamente le condizioni climatiche oggi: non pioveva da 3 mesi e le temperature erano abbondantemente oltre la media. È molto probabile che il prossimo autunno si verifichino fenomeni non dico simili, ma sicuramente importanti».
Parola di Marco Borga, 61 anni, professore di Idrologia forestale e idraulica al Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova. Da due anni si occupa anche del master in Water and geological risk engineering (ingegneria del rischio idrico e geologico). Dunque il clima e gli effetti che questo ha sul pianeta, con i relativi nubifragi, sono la sua materia di studio.
Professore, esiste un legame tra il cambiamento climatico e le cosiddette “bombe d’acqua”?
«Certo. Con l’aumento della temperatura globale l’atmosfera è in grado di contenere una maggiore quantità di vapore d’acqua. Questo fattore è direttamente collegato a fenomeni estremi di precipitazione».
C’è una distinzione o è una situazione che riguarda tutta Italia?
«Diciamo che Veneto e Trentino Alto Adige sono zone in cui le precipitazioni intense aumentano maggiormente rispetto ad altre zone. Lo rivela l’analisi degli ultimi 40 anni».
Qual è l’elemento più preoccupante che individua in questo momento?
«L’estrema variabilità: anni con precipitazioni oltre la media e anni completamente senza. L’aumento delle temperature genera un aumento della variabilità, a cui non siamo abituati. Inoltre, le infrastrutture di uso dell’acqua non sono adatte a questa variabilità».
E quando non si abbattono le tempeste, imperversa la siccità.
«In generale, come cultura tecnico scientifica e capacità di risposta della popolazione, siamo bravi nel mitigare il rischio di piena ma molto meno capaci nel reagire a eventi di siccità. Non abbiamo ancora trovato misure tecnico scientifiche per generare strumenti in grado di mitigarne gli effetti».
C’è questo fenomeno del cuneo salino, cioè l’avanzata dell’acqua del mare nell’entroterra. Quali rischi comporta?
«Il cuneo salino sotterraneo deposita i sali nel terreno e questi sono difficilissimi da smaltire. Nel momento in cui le falde saranno di nuovo occupate da acqua dolce, il suolo conterrà ancora sale. Con tutto ciò che comporta, sia per l’uso agricolo che potabile. Purtroppo stiamo andando incontro a fenomeni irreversibili».
Una soluzione per combattere in futuro la siccità può essere la desalinizzazione dell’acqua marina?
«Non la vedo una strada praticabile. È troppo costoso a livello energivoro. Inoltre c’è un altro aspetto. Usare tutta quell’energia per desalinizzare acqua, per poi metterla in acquedotti che ne disperdono tra il 20 e il 40 per cento, mi sembra poco sensato. Il problema è che abbiamo molta acqua dal cielo ma la trattiamo in modo non parsimonioso».
Ipotizziamo che lei ora sia il ministro dell’Ambiente. Quale sarebbe la sua prima mossa per tentare di risolvere la situazione?
«L’agricoltura è in assoluto il fronte che maggiormente utilizza le riserve idriche. Se introduciamo tecniche parsimoniose in questo campo, facciamo tantissimo. Si attiverebbe un circolo virtuoso, con una maggiore produzione agricola e con una portata superiore sui fiumi in grado di contrastare il cuneo salino».
I consorzi chiedono di poter usare le ex cave come bacini di raccolta. Secondo lei può essere una soluzione?
«Avere uno stock d’acqua di riserva può essere una soluzione, ma ogni investimento strutturale in una società complessa come la nostra genera grandi perdenti e grandi vincitori. Io prediligo le soluzioni non strutturali. Ripeto: puntiamo sull’agricoltura, è questa la chiave per cambiare il paradigma».
Esistono nella storia precedenti simili dal punto di vista climatico?
«Molto raramente si combinano siccità invernale e siccità estiva. Dobbiamo andare a un secolo fa per trovare una situazione simile a quella di oggi. Dobbiamo andare al 1922».
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