Cinema al 100 per cento, ecco le recensioni dei film in sala dal 2 marzo

Arriva in sala il controverso “Benedetta” di Paul Verhoeven ispirato alla storia vera di suor Benedetta Carlini. In “Empire of Light” affiorano i dolorosi ricordi personali di Sam Mendes. Martone incanta nel docu-film “Laggiù qualcuno mi ama” dedicato al genio di Massimo Troisi. Penelope Cruz è la protagonista di “Tutto in un giorno” di Juan Diego Botto

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "Benedetta"
Il film "Benedetta"

Il film "Empire of light"
Il film "Empire of light"

Regia: Sam Mendes

Cast: Olivia Colman, Michael Ward (II), Tanya Moodie, Colin Firth, Toby Jones

Durata: 119’

La vena malinconica e autobiografica che ha già influenzato Alfonso Cuarón (Roma), Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio), Alejandro González Iñárritu (Bardo) e, da ultimo, Steven Spielbeg (The Fabelmans), pulsa anche per il regista britannico Sam Mendes, nel suo ultimo film “Empire of Light”. Anche per lui, i ricordi intimi e personali si mescolano ad una storia (inventata) di integrazione per trovare “dove giace la luce nell’oscurità”, citazione shakespeariana che campeggia sulla parete del grande foyer dell’Empire, il cinema al centro della narrazione di Mendes, affacciato sulla costa del Kent all’inizio degli anni ’80. È un periodo difficile: “i momenti di gloria” e di emancipazione del decennio precedente sembrano inghiottiti da una nuova ondata di conservatorismo, politico e sociale, con pericolosi rigurgiti razzisti.

A farne le spese sono Hilary (una sempre magistrale Olivia Colman), vicedirettrice dell’Empire, appena emersa da un esaurimento nervoso che l’ha incrinata e resa vulnerabile alle attenzioni viscide del direttore (Colin Firth) e Stephen (Michael Ward), giovane ragazzo nero assunto per staccare i biglietti.

Tra i due nasce un’intesa, fragile come l’equilibrio mentale di Hilary, il cui zelo e la cui precisione le impediscono anche solo di godersi un film nel buio della sala, mentre le emozioni per Stephen sfidano l’apatia indotta dal litio e, soprattutto, il senso del pudore. Quando “Empire of Light” attinge dal ricordo (quello autentico del regista che rivive i momenti difficili vissuti con una madre in cura per problemi mentali) e, soprattutto, dal volto di Olivia Colman e dagli effetti collaterali di un “eroismo” sopito dai farmaci, Mendes costruisce un grande film, insieme a quel presagio, angoscioso, di cambiamento che la sala cinematografia dell’Empire sembra, illusoriamente, fermare con le sue fragili vetrate e quel fascio di luce che riempie lo schermo ma non può rischiarare ciò che sta fuori.

“Oltre il giardino” (uno dei tanti film citati che hanno, evidentemente, lasciato un segno indelebile sul regista), si staglia la questione interraziale che trova il suo controcanto nella relazione tra Hilary e Stephen anche se non riesce, davvero, a smarcarsi da certi limiti convenzionali e da una sensazione di essere solo “al servizio” di qualcos’altro. Questo elemento narrativo, così come una sceneggiatura a volte troppo appesantita dalla metafora cinematografica (con quei parallelismi tra la vita e l’arte del proiettare), finiscono per scompensare il battito del cuore di Mendes che filma il suo “Cinema Paradiso”, con la consapevolezza, amara, che il Paradiso (in cielo come in terra) non esiste. (Marco Contino)

Voto: 6,5

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Il film "Benedetta"
Il film "Benedetta"

Regia: Paul Verhoeven

Cast: Virginie Efira, Charlotte Rampling, Daphne Patakia, Lambert Wilson

Durata: 131’

A ottant’anni suonati Paul Verhoeven provoca e si diverte più di prima, con lo spirito di chi si sente libero e se ne infischia di benpensanti e codici da rispettare. Ora scompagina l’epica religiosa, facendo ballare la sua protagonista, suor Benedetta, come le “Showgirls” del suo film del ’95, sul crinale dell’estasi mistica e del piacere, della santità e della blasfemia, dello spirito e delle carni, con quell’ironia che solo nelle mani del regista olandese non tracima nel ridicolo.

“Benedetta” - adattamento di "Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento" di Judith C. Brown – racconta la storia vera di Benedetta Carlini, entrata bambina in convento a Pescia nel XVII secolo, dei suoi deliri mistici e, soprattutto, della sua relazione omosessuale con la novizia Bartolomea, strappata alle violenze del padre.

Santa o strega? Salvatrice della comunità (che, all’epoca, fu risparmiata dalla peste) o manipolatrice? Martire autentica o abile emulatrice di stimmate? Il punto non è questo o, almeno, non è solo questo. Paul Verhoeven, dopo i reggimenti militari di “Starship Troopers”, mette alla berlina un’altra istituzione, quella di una Chiesa affarista (non si entra in convento per vocazione ma con gli scudi d’oro, come ricorda la madre badessa interpretata da Charlotte Rampling) che maneggia pire di fuoco e strumenti di tortura spinta dagli umori e dalle convenienze.

Il suo resta un cinema profondamente carnale, di sangue e di protesi (come quelle di “Robocop”), di deiezioni e di manufatti che donano piacere e sofferenza con al centro “Elle”, Virginie Efira, teatina promessa a Cristo (raffigurato nelle sue visioni come un cavaliere - giustiziere), purissima e, insieme, ambigua come la Catherine Tramell di “Basic Instinct”.

Femmina portatrice della parola di Dio (attraverso l’epifania della sofferenza e dell’estasi del piacere) in un mondo di uomini abietti: parroci, prevosti e nunzi apostolici che coniugano il Verbo solo alla prima persona singolare, la loro. Verhoeven mostra e nasconde, osserva e spia attraverso leggerissimi e quasi trasparenti sipari di stoffa, alternando alle ombre del convento dove si consumano i fatti più scabrosi, la luce di un sole o di una cometa che mostrano i bubboni della fede e le piaghe del tempo. Alla fine, esplode il tumulto popolare, degna conclusione per un rivoluzionario come Verhoeven che fa ricominciare Benedetta e Bartolomea, nude, da una sorta di Giardino dell’Eden dei sopravvissuti, pronte a nuovi martirii. La mela è già caduta dall’albero e la salvezza degli uomini brucia insieme alle streghe. (Marco Contino)

Voto: 7

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Il film "Laggiù qualcuno mi ama"
Il film "Laggiù qualcuno mi ama"

Regia: Mario Martone

Cast: Massimo Troisi

Durata: 128’

In occasione del 70° anniversario della nascita dell'indimenticabile attore e regista Massimo Troisi, Mario Martone ha firmato un docufilm che ne racconta il mito e la genialità con interviste, spezzoni di film e materiali inediti. Martone continua così la sua personale galleria di testi e artisti napoletani, che ha portato sullo schermo Scarpetta ed Eduardo, Ermanno Rea e ora Massimo Troisi, con in più, in quest’ultimo caso, un omaggio a un attore che ha introdotto nella sua cifra comica una nota tragica, forse per quella cardiopatia che credeva debellata e che invece se l’è rapito, a 41 anni.

Martone dice una cosa su Troisi, che riguarda anche il suo lavoro: a Napoli la comicità è una cosa seria, fatta per adulti, e lo confermano i film dello stesso Martone, in cui forse solo Qui rido io assume una vis comica che va al di là delle vicende individuali, spesso contorte, socialmente determinate in modo drammatico o quanto meno non lineari.

Laggiù, sottinteso, a Napoli, più di qualcuno continua ad amare Troisi: Martone però, con questo suo documentario, sottolinea e rilancia il modello europeo del suo cinema, andando oltre il Golfo e il Vesuvio, la Smorfia (con cui venne scoperto, assieme a Lello Arena) e i cliché da “comico dei sentimenti”, e ripercorrendo arditi (ma non troppo) paralleli con François Truffaut e la nouvelle vague.

Troisi in realtà ha rappresentato il superamento dei più vieti cliché della napoletanità d’accatto, spaghetti, camorra e mandolini, esportando ironia e malinconia agrodolce e influenzando una generazione di cineasti, come conferma anche Paolo Sorrentino, sia nell’intervista del film che anche nel recente “È stata la mano di Dio”.

Ma più in generale il ragazzo di San Giorgio a Cremano che diventa adulto e spicca il salto verso il cinema e lo spettacolo internazionale mantiene una caratteristica che il film di Martone ben evidenzia, quello di un amore verso la vita, di un sentimento di coinvolgimento esistenziale e sociale che trova il suo apice, purtroppo conclusivo ne “Il postino”. E che “Laggiù qualcuno mi ama” evidenzia bene quanto manchi nel cinema e nel panorama artistico italiano (Michele Gottardi).

Voto: 7,5

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Il film "Tutto in un giorno"
Il film "Tutto in un giorno"

Regia: Juan Diego Botto,

Cast: Penélope Cruz, Luis Tosar, Font García

Durata: 105’

Esordio col… Botto per questo attore argentino, naturalizzato spagnolo, che passa dietro la macchina da presa per un film di impegno civile che richiama il cinema dei suoi connazionali, ma anche quello degli altri cineasti europei non riconciliati, alla Ken Loach.

Grazie a lui scopriamo che in Spagna ogni giorno vengono eseguiti circa 100 sfratti esecutivi con la forza pubblica, spesso da abitazioni civili che banche o fondazioni d’impresa decidono di mettere sul mercato, incuranti di chi ci vive. Il film si snoda nell’arco di 24 ore, in cui si intrecciano le storie di tre protagonisti, tre persone che hanno in comune il problema dello sfratto, visto tuttavia da tre angolature diverse.

C’è l’avvocato Rafa (Luis Tosar, sempre grande) votato alla missione umanitaria di aiutare chi è in difficoltà senza trarne alcun vantaggio personale, sacrificando la propria famiglia, con una moglie incinta che non segue e un figliastro ancor più abbandonato a se stesso. Deciderà anzi di sacrificare ulteriore tempo e energie dedicate alla propria famiglia per una causa sociale in cui crede profondamente. Si trova alle prese con un caso di custodia, una ragazza araba rischia di vedersi togliere la figlia e farà di tutto per impedirlo.

C’è una non meno brava Penélope Cruz (qui anche produttrice), nel ruolo di Azucena, madre coraggio, ma insieme anche mater dolorosa, disperata perché lotta quotidianamente per superare i problemi economici, col marito argentino (è il regista stesso) che fa l’operaio e guadagna una miseria. E poi c’è Teodora (Adelfa Calvo), alle prese con i fallimenti di suo figlio, che cerca per aiutarlo, ma lui si nega, schiantato dai sensi di colpa. Questa precarietà esistenziale è destinata a cambiare, in un senso o nell’altro, nel corso di una notte, aprendo speranze o chiudendole, forse definitivamente.

Bravo a non eccedere nella retorica, Juan Diego Botto, mescola ritmo, plot da thriller e analisi sociale. Il suo sguardo, ben dentro le vicende, ma anche distaccato per la sua origine d’oltremare, gli permette di fare un film appassionato e sentito, senza debordare, ma con ben chiara la componente forte della latinità mediterranea. Un film sugli ultimi, che non sempre e necessariamente vengono dal sud o dall’est del mondo, ma a volte sono gli inquilini della porta accanto (Michele Gottardi).

Voto: 7

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