Cinema al 100 per cento, ecco le recensioni dei film in sala il 5 gennaio
In sala c’è “Godland – Nella terra di Dio”, uno dei film più potenti dell’anno. Si parla di identità (quella in erba di due ragazzini) nel delicato “Close” di Lukas Dhont, ma anche nel thriller “Un vizio di famiglia” di Sébastien Marnier con una ambigua Laure Calamy. Fabio De Luigi torna dietro la macchina da presa, dirigendo se stesso e Virginia Raffaele nella commedia “Tre di troppo” sull’atavico e divertente conflitto tra coppie senza figli e genitori

Regia: Hlynur Pálmason
Cast: Elliot Crosset Hove, Ingvar Sigurðsson, Vic Carmen Sonne, Jacob Hauberg Lohmann
Durata: 143’
Alla fine del XIX secolo un giovane prete danese (Elliott Crosset Hove) parte per una regione remota dell’Islanda per edificare una chiesa, fotografando - nel corso di un pericoloso viaggio per mare e poi a cavallo - luoghi e persone, accompagnato, tra gli altri, da una guida locale (Ingvar Sigurðsson) e da un traduttore. Sopravvissuto quasi per miracolo alla spedizione, il prete non trova pace: non nella natura e nemmeno nella piccola comunità di approdo, ospite di un padre con le sue due figlie.
Dopo il thriller ossessivo girato nella luce abbacinante e spietata dell’isola di ghiaccio (A White White Day), Hlynur Pálmason firma un’opera straordinaria. “Godland” è una sorta di western (o, come lui stesso lo ha definito, un “northern”) che indaga il tema del conflitto.
Primo fra tutti, quello tra l’uomo e una natura bellissima e, insieme, terribile, in cui l’umano è, di fatto, solo un insignificante elemento esposto alle piogge, ai venti e al gelo di un’isola spietata (si veda “la parabola” della carcassa di cavallo che il susseguirsi delle stagioni preserva e, poi, consuma).
In alcuni momenti, Pálmason sembra echeggiare le atmosfere di “Picnic ad Hanging Rock” di Weir, in quello scontro tra la razionalità umana e il misticismo magico di luoghi dai rumori ancestrali che tramandano storie di ossessioni (il racconto delle anguille), attraverso carrelli e piani sequenza che tolgono il fiato e, nel loro dilatarsi, amplificano quel senso di ineluttabilità e di soverchiamento della natura su tutto.
Ma è, anche, un conflitto tra uomini e negli uomini. L’idealismo del prete, nell’esperienza del viaggio e nella successiva dimensione di uomo di una Chiesa isolata e remota, scolora in un profondo disagio e in un’incapacità di trovare il proprio posto. Un dissidio interiore che esplode all’esterno, prima con la guida locale (che è esattamente il suo opposto pur condividendo con il prete un incombente senso di inadeguatezza) e poi con il fiero padre della piccola comunità.
Ed è, ancora, un conflitto di comunicazione, di idiomi (il danese e l’islandese) simili per fonetica, eppure, lontanissimi, tali da scavare tra i personaggi vuoti incolmabili.
Pálmason – che ha girato in ordine cronologico, spesso raggiungendo proprio a cavallo alcuni dei luoghi più impenetrabili e filmando anche per anni le vedute del ghiacciaio o il cavallo in decomposizione – compenetra questa narrazione essenziale e bellissima in una forma (forse l’unica possibile) che simula le lastre fotografiche di collodio (l’evoluzione della dagherrotipia) dal formato 1.37:1 con mascherino nero dagli angoli arrotondati che, non concedendo nulla alla panoramicità, sublima, però, i primi piani, li riscalda e, infine, nella scelta di questo formato cinematografico “antico”, conferisce alla storia un senso universale e moderno come se i conflitti del film fossero quelli che anche oggi attraversano l’uomo nel rapporto con se stesso, con gli altri e con la natura. “Godland” è già uno dei film più potenti dell’anno. (Marco Contino)
Voto: 9
***
Regia: Fabio De Luigi
Cast: Fabio De Luigi, Virginia Raffaele, Fabio Balsamo, Barbara Chichiarelli
Durata: 107’

Marco (Fabio De Luigi) e Giulia (Virginia Raffaele) sono due ultraquarantenni in forma, hanno due lavori appaganti e una casa bella e ordinata. Si divertono, fanno l’amore, hanno tempo per loro stessi (in particolare per il ballo) e non concepiscono che la loro vita possa essere condizionata da altri.
Men che meno dai figli che hanno scelto di non avere, demonizzandoli e rifuggendo, quando possibile, le occasioni di incontro con altre coppie zavorrate dai pargoli. Ma dopo la maledizione di una mamma esasperata dal loro atteggiamento, Marco e Giulia si risvegliano genitori di tre bambini che, ovviamente, non sanno come accudire.
Anche le loro vite hanno preso un corso alternativo: ora hanno un lavoro “child-friendly”, un mini-van invece della spider, la pancia e le borse sotto gli occhi, un letto matrimoniale improvvisamente affollato da minorenni.
Come tornare alla vita precedente e annullare il maleficio? Fabio De Luigi, dopo il poco fortunato “Tiramisù”, si sdoppia e torna dietro la macchina da presa per firmare il classico film per famiglie con lo scontro, ormai proverbiale, tra coppie apparentemente felici perché senza prole e coppie effettivamente esaurite per colpa di figli fagocitanti.
Nelle iperboli del confronto c’è sempre un fondo di verità anche se, naturalmente, la bilancia si sposta inevitabilmente a favore dei secondi (forse con l’ingiusta, anche se non voluta, conclusione che solo con i figli una coppia possa sentirsi davvero realizzata). Ma non è il caso di spaccare il capello in quattro di fronte a una commedia onesta, con due protagonisti che hanno tempi comici e facce gommose, comprimari all’altezza e qualche momento autenticamente divertente. Non c’è la profondità e l’amarezza di “Figli” di Mattia Torre ma la volontà di offrire al pubblico delle feste un’ora e mezza di svago senza alcuna pretesa pedagogica (anzi, il professionista di turno, in un gradevole cameo dello sceneggiatore Nicola Guaglianone, ne esce con le ossa rotte). (Marco Contino)
Voto: 6
***
Regia: Sébastien Marnier
Cast: Laure Calamy, Doria Tillier, Jacques Weber, Dominique Blanc, Suzanne Clément
Durata: 123’
In una lussuosa villa sul mare, una giovane schiva e modesta si ritrova in compagnia di una bizzarra famiglia: un padre sconosciuto e ricco, la sua stravagante consorte, la figlia ambiziosa, un’adolescente ribelle e la loro inquietante cameriera. Qualcuno mente. Tra sospetti e bugie, il mistero cresce e il male dilaga.
Presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 79, il film di Sébastien Marnier è un elogio e un omaggio al matriarcato prossimo futuro. Tra le donne del film ci sono diversi tipi di relazione: amanti, sorelle, sorellastre e nipoti. Ciascuna desidera ciascuna, senza sapere come amare davvero qualcuno.
La conoscenza della famiglia avviene attraverso gli occhi di Stéphane, per questo, dice Marnier, «all’inizio abbiamo idee preconcette, ma con il tempo vengono alla luce varie realtà. Sono contento del lavoro fatto con gli attori: i loro personaggi presentano un’interessante gamma di mostruose persone. Eppure loro non le giudicano, perché ognuno possiede la propria verità. Il film parla della fine del patriarcato e l’idea era di avere solo donne nella storia, a eccezione dell’origine del male stesso: il padre».
L’unica cosa che Stéphane vuole a tutti i costi è trovare un posto nella famiglia: per questo motivo, la sorellanza è la nozione principale che sostiene il film. “L’origine del male” si colloca nella scia di un classico cineasta francese come Claude Chabrol, capace di descrivere le falsità borghesi del proprio paese, e del mondo, declinandole nel registro del noir, ma innerva queste atmosfere in modo imprevedibile, con scarti di sceneggiatura improvvisi, quasi violenti, verso una soluzione finale, forse prevedibile, ma che sa di presa di coscienza di classe. (Michele Gottardi)
Voto: 6.5
***
Regia: Lukas Dhont
Cast: Eden Dambrine, Gustav De Waele
Durata: 105’

“Close”, diretto da Lukas Dhont, racconta la storia dell’amicizia tra i tredicenni Léo e Rémi. I due sono molto legati e abituati a dimostrarsi affetto in pubblico genuinamente, senza preoccuparsi di cosa possa pensare chi li vede da fuori. Quando arrivano alle scuole superiori, questa dimensione balza agli occhi: un giorno una coetanea, davanti a tutti, chiede loro se sono una coppia, insospettita dal legame tra i due.
Nonostante Léo specifichi che il rapporto è solamente di amicizia fraterna, il loro forte e duraturo legame viene improvvisamente e bruscamente interrotto. Léo inizia a evitare il suo amico, timoroso che l’amicizia possa essere fraintesa. Dal canto suo, Rémi si sente ferito e non riesce a capire il vero motivo del perché il suo migliore amico abbia cambiato atteggiamento nei suoi confronti. E mentre Léo cerca conferma alla sua virilità iscrivendosi alla squadra di hockey su ghiaccio del paese, dove il dolore fisico tiene lontano quello sentimentale, anche semplicemente per bisogno di normalità, Rémi si chiude sempre più in se stesso, senza speranza.
Attento, dall’interno, alle tematiche Lgbt, il regista belga continua, dopo l’esordio di “Girl”, il suo percorso di sensibilizzazione, mostrando quanto ancora i condizionamenti sociali influenzino e pesino sulla vita degli adolescenti, prima ancora che degli adulti. Giunti a un momento particolare della loro crescita esistenziale e affettiva, sul limitare di una sottile linea d’ombra tra giovinezza ed età adulta, i due adolescenti si scontrano già con pregiudizi e luoghi comuni. O forse, sono costretti a una presa di coscienza troppo veloce per essere affrontata con serenità.
Aiutato da due bravissimi esordienti, Dhont confeziona un film di grandi sentimenti, ma anche di silenzi e di sguardi, di contrasti e di colori (evocative le immagini tra i fiori), che cita François Truffaut, ma che sa essere autonomo disegnando un mondo senza luogo, un altrove sempre creduto lontano, ma in realtà molto più vicino di quanto non si creda. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, il film ha vinto il Gran Premio della Giuria. (Michele Gottardi)
Voto: 7
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