Colf e badanti, soprattutto donneImmigrati filippini tra gentilezza e religione

Festa del Bambin Gesù nella chiesa della Natività
Festa del Bambin Gesù nella chiesa della Natività
E’ donna la Republika Pilipinas, che negli ultimi 20 anni ha avuto due presidentesse (Cory Aquino e l’attuale Gloria Macapagal Arroyo: primo atto dopo la riconferma del 2004, il ritiro delle truppe dall’Iraq) e conta 9 milioni di emigrati (su 91 milioni di abitanti) di cui in Italia - ma non fa eccezione - il 62% sono donne. Partono al ritmo di 434 mila all’anno, lasciano i figli al marito e alla famiglia-clan e vengono qui ad occuparsi dei figli, dei vecchi, delle case altrui.


All’inizio senza sapere un’acca di italiano, e spesso anche dopo, ché si esercitano poco nella lingua lavorando dentro le case, e parlando poco e male preferiscono tacere: la chiamano hiya, è una caratteristica di questo popolo gentile che ama il canto e i fiori - la loro foresta tropicale ospita una fantasmagoria di mille specie di orchidee anche se il tasso di deforestazione è il più alto del mondo - e vive tra tifoni, eruzioni e terremoti (quello del 1990 fu una catastrofe). Hiya, che vuol dire vergogna, pudore che generano timidezza, distanza. E siccome sono le donne a fare da migranti-apripista, la faccenda lingua diventa ancora più spinosa quando ottengono il ricongiungimento familiare.


A Padova e provincia sono 1499 i filippini residenti (818 donne, 681 uomini) di cui 1224 in città, per lo più a badare, accudire, pulire, far passeggiare labrador e nei tempi morti lustrare ottoni e i pomoloni dei portoni dei ricconi con villa+parco in centro storico e la colf o il colf in livrea fissi notte e giorno. Quelli che: io la filippina me la porto dappertutto, d’inverno a Cortina, d’estate a Salina, nei fine settimana in villa a Teolo, a carnevale nel podere in Lunigiana, ai Morti stiamo in Valpadana ma ci sono da pulire gli argenti, i tappeti e le tende. E la disgraziata sempre di turno magari schiatta ma senza farsi vedere. Gentile anche in questo.


La comunità filippina è il gruppo più femminilizzato di migranti, dice la Caritas che quanto ad analisi e monitoraggio delle immigrazioni non è seconda ad alcuno. Poco appariscenti, molto religiosi (94% della popolazione è cristiana, unico caso tra i Paesi asiatici dell’estremo oriente, il 5% musulmana e il terrorismo islamico è esplosivo); ancorati ai legami familiari; corretti (il loro contributo alla criminalità padovana, macro o micro che sia, è pari a zero, spiega con un certo sollievo Marco Calì, capo della squadra Mobile); per necessità e carattere propensi ai lavori di accudimento domestico, i filippini sono una delle prime comunità straniere arrivate in Veneto negli anni Ottanta.


A Padova abitano per la maggior parte in zona Bassanello-Stanga nel quartiere Sud-Est e in Centro, domiciliati dai ricconi di cui sopra. Si trovano la domenica al Santo e nei momenti liberi davanti a palazzo Moroni. La percentuale più alta di sposati tra gli stranieri Dagli anni Novanta le cose sono un po’ cambiate: con la grossa ondata dei ricongiungimenti (l’arrivo dei mariti), hanno cominciato a lavorare anche in hotel e ristoranti, quindi a liberarsi dall’occupazione 24 ore su 24 e cercare alloggi indipendenti dove ricostituire la famiglia. Che per loro ha una F molto maiuscola, non a caso sempre a Padova sono gli immigrati con la più bassa percentuale di single, pari al 55%, contro l’84% degli ucraini, il 79% dei croati e il 74% dei bangladesi.


Le Pilipinas, così in lingua tagalog (la più importante degli 80 idiomi parlati), colonia spagnola dal 1521 al 1898, 7107 isole delle quali 2 mila abitate, 300 e rotti mila chilometri quadrati di estensione (esattamente come l’Italia), abitate dai meno orientali tra gli orientali, è un Paese bellissimo e difficile: il 40% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno, il 70% nella minoranza musulmana. E’ fame. E si sono mosse le donne. Partendo per l’occidente, Italia compresa, dove c’era richiesta di lavoro a domicilio femminile. Quello che facevano le venete negli anni ’50 e nei ’60 del boom, le ragazze che dalla campagna giovanissime andavano a servizio in città e nella cameretta un po’ così, letto-armadio-tre quadretti, della borghesona casona della padrona ci passavano le notti di un bel po’ di vita.


Vita da pinoys: «Quel viaggio da clandestina, un inferno» Donne che si sono sobbarcate viaggi d’inferno per arrivare qui a vivere da pinoys (così si chiamano i filippini emigrati, che diventano balikbayan quando rientrano in patria). Come Maria Giuditta Medina Abuga, 41 anni, una delle facilitatrici culturali del Comune, che 20 anni fa partì dal suo paese a 500 chilometri da Manila. Una famiglia benestante la sua, mamma ostetrica, papà con 20 ettari di terra da far fruttare tra un tifone e l’altro. Invece. «Ho studiato al mio paese fino alla scuola di mezzo (dai 12 ai 16 anni), poi ho fatto l’università a Manila.


Economia e commercio. Ma la terra era stata danneggiata, eravamo poveri. Io non trovavo lavoro, qui a Padova c’era già una cugina e lavorava. Sono partita senza documenti validi, pagando tanti soldi a un’agenzia filippina. Ricordare quel viaggio mi fa male. Aereo fino in Europa - continua Giuditta, con la figlia Reia Jui di 18 mesi in braccio, che dopo 10 anni di colf ora lavora come consulente per i suoi connazionali - poi tanta strada a piedi in Jugoslavia, fino al mare. Ci hanno caricato in un motoscafo, di notte, ero vestita leggera, faceva un freddo terribile e il mare era mosso. La barca è stata anche sommersa dalle onde. Ero fradicia. Fino a Trieste». Poi Padova, la cugina, il primo lavoro in nero in una casa, e via».


Racconta la difficoltà nel lasciare il proprio Paese, la grande voglia di ritornarci e l’enorme paura di non aver risparmiato abbastanza per poterlo fare con tranquillità. E racconta le nuove generazioni: «I nostri figli nati qui cominciano a fare altri lavori, ho un’amica che si è diplomata infermiera e lavora. Spero che le ragazzine abbiano un futuro diverso».
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