«Così scoprimmo Profeta, il killer che terrorizzò Padova»

A vent'anni di distanza Paolo Luca, il pm che condusse l’inchiesta, racconta quei drammatici giorni. E come è cambiata l’investigazione: «La scienza aiuta, ma serve stare in strada» 
Il serial killer Michele Profeta
Il serial killer Michele Profeta

PADOVA. Vent’anni fa il serial killer Michele Profeta terrorizzò Padova, e l’Italia, firmando due delitti che – nella sua logica criminale – avrebbero dovuto essere i primi di un lungo elenco. Vent’anni e sembra un secolo, pensando a quanto sono cambiati tecniche e metodi d’indagine. Ne parliamo con Paolo Luca, il pubblico ministero che allora coordinò l’inchiesta e fu pubblica accusa al processo, ora magistrato alla guida della procura di Belluno.

«Quell’esperienza mi ha insegnato molto» spiega, «Si trattò di una indagine difficile per l’assenza di un reale movente. Ricordo la tensione e la paura che attraversavano la città con tutti i giornali e le tivù nazionali arrivati per seguire la storia. Dopo il secondo omicidio, c’era la piena consapevolezza che si trattava di una catena di delitti. E che l’autore avrebbe continuato: alla vigilia del primo omicidio, il killer aveva inviato una lettera alla questura di Milano con la richiesta di 12 miliardi di vecchie lire o avrebbe ucciso. Nell’appartamento dove scoprimmo la seconda vittima, il messaggio lasciato era accompagnato da due carte da gioco simbolica sequenza dei delitti. Se sai quale è il movente, ti puoi muovere con razionalità. Ma se non c’è movente, che fai? C’era forte preoccupazione tanto che il Ministro dell’Interno Bianco mandò agenti dello Sco e dello Uacv in supporto alla Squadra mobile diretta da Alessandro Giuliano, oggi questore a Napoli. C’era l’idea di un serial killer che voleva sfidare l’autorità. In quei giorni accadde anche il delitto del professor Pasimeni, solo dopo qualche giorno scoprimmo che si trattava di un parricidio».

Il taxi a bordo del quale fu commesso il primo delitto
Il taxi a bordo del quale fu commesso il primo delitto


Quali le differenze investigative tra ieri e oggi?

«Le fondamentali differenze sono negli strumenti di indagine. Le nostre città sono tutte videosorvegliate e quando si tratta di identificare l’autore di un crimine, iniziamo a esaminare i sistemi di videosorveglianza che, all’epoca, erano scarsi. Anzi, non c’era consapevolezza di quanto aiuto potessero dare. Ancora: oggi quasi tutti hanno un pc collegato alla rete e comunicano tramite i Social. E spesso per esibizionismo, autocompiacimento o leggerezza i criminali spargono indizi. Nel caso di Profeta tutto era complicato perché lui non conosceva le vittime e le sceglieva sulla base di un criterio: i soggetti non dovevano offrire resistenza. Infine è cambiato il sistema delle comunicazioni telefoniche: tutti hanno un cellulare e il tracciamento è codificato. Oggi si parte esaminando il cellulare della vittima e c’è la possibilità di geolocalizzare le persone tramite le celle telefoniche».

La prima vittima: il tassista Pierpaolo Lissandron
La prima vittima: il tassista Pierpaolo Lissandron


Come si lavorò sul caso Profeta?

«Si partì da un appunto preso a penna da Walter Boscolo: in un’agenda di lavoro aveva segnato giorno e ora, le 15.34, in cui aveva ricevuto la chiamata di un tal signor Pertini interessato a visitare un monolocale in via San Francesco. L’appuntamento era stato fissato per il sabato, giorno della sua scomparsa. Acquisimmo tutte le telefonate in entrata sull’utenza dell’agenzia di quel giorno: si scoprì la chiamata era stata fatta in una cabina dell’ospedale di Noventa Vicentina usando una scheda prepagata. In quella scheda c’era un codice seriale e la individuammo: aveva un credito residuo ed è stata la nostra fortuna. Con la stessa scheda Profeta fece una telefonata dalla madre in Sicilia. Se il credito fosse stato esaurito, non saremmo arrivati a lui. Diciamo che il principio di buona sorte è sempre necessario».

La seconda vittima: Walter Boscolo
La seconda vittima: Walter Boscolo


Tutto accadde in una settimana...

«Una settimana convulsa affrontata con personale di livello assoluto. Scoprimmo in breve chi era Profeta, la sua doppia vita con moglie e figli e una compagna, un siciliano trasferito in Veneto con studi in Giurisprudenza, un lavoro da immobiliarista finito male, il vizio del gioco e un forte senso di frustrazione. Veniva in città per distribuire volantini».

Quanto ha collaborato la città?

«Grazie alle notizie diffuse dalla stampa, si fece avanti un giovane agente immobiliare che, talvolta, incontro ancora oggi. Era stato contattato da un tal signor Pertini e per tre volte, prima del delitto Lissandron, lo aveva portato in visita ad appartamenti. Non si sfilava mai i guanti e faceva domande strane. Nell’ultimo incontro, quando forse Profeta aveva deciso di agire, il giovane si fece accompagnare da un amico: questo fatto gli salvò la vita. Sapeva di aver rischiato e fu preso da un senso di angoscia quando gli fu chiesto di riconoscere Profeta sia pure attraverso lo specchio segreto. A questa persona vanno riconosciuti fermezza, coraggio e senso civico. Profeta aveva anche progettato un terzo omicidio, ancora nella logica di un’azione senza rischi: il portiere di notte di un hotel del centro già contattato».

Gli strumenti scientifici segnarono la svolta nell’indagine?

«Sperimentammo una serie di accertamenti che furono la base di un solidissimo processo. Tutto il materiale sequestrato fu analizzato con tecniche sofisticatissime: le carte da gioco, l’inchiostro e la carta dei messaggi del killer come il normografo per scrivere i testi».

Oggi la tecnologia ha un grande spazio nelle indagini. È la scienza a risolvere i casi?

«Ogni tempo offre gli strumenti che la tecnologia del momento mette a disposizione. Attenzione, però: la tecnologia dà un contributo importante. Tuttavia per l’investigazione resta fondamentale l’attività di indagine sulla strada come sentire le persone, pedinare, osservare i luoghi. In una parola, annusare il territorio. —

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