Crisanti: «Tre casi positivi ogni dieci sfuggono ai test rapidi usati in Veneto»

VENEZIA. Il tampone rapido non “vede” tre positivi al Coronavirus ogni dieci testati. Questo l’esito dello studio del professor Andrea Crisanti, che evidenzia come «i dati sollevino delle criticità». E ha posto il suo veto: «In autotutela questa unità operativa da oggi non emetterà referti negativi basati sul test antigenico Abbott».
Perché? Secondo lo studio padovano, che porta la firma del padre del modello Vo’, il tampone rapido usato a Padova (e in Veneto) produce una percentuale troppo alta di falsi negativi: almeno tre ogni dieci.
Come spesso accade, è necessario partire dalla fine per dipanare una matassa aggrovigliata. Le parole di Crisanti chiudono una lettera inviata, in data 21 ottobre, dal prof (direttore della Microbiologia padovana) al direttore generale dell’azienda ospedaliera di Padova Luciano Flor. Missiva inviata pari pari alla Regione Veneto. Oggetto, i tamponi rapidi.
Ebbene, già molti esperti hanno sollevato più o meno chiaramente dubbi sull’utilizzo del tampone rapido per lo screening del Covid-19. Crisanti, da scienziato, ci ha guardato dentro.
Per un mese (dal 15 settembre al 16 ottobre) ha sottoposto (insieme agli Infettivi e al Pronto soccorso) un gruppo di pazienti, 1593, a doppio test. Prima rapido, poi molecolare.
Ecco il risultato: «Dall’analisi dei dati riportati in tabella si evidenzia che su un totale di 61 campioni risultati positivi al test molecolare, 18 sono risultati negativi al test antigenico rapido».
Ecco perché Crisanti ha deciso che dal “suo” laboratorio non referterà mai un test rapido che abbia dato esito negativo. Troppo alto il rischio, secondo il prof, di incappare in un errore, in un “falso negativo”. Le conseguenze? Oggi un positivo riesce a infettare tre persone. Crisanti ha fatto due conti e i risultati sono allarmanti.

Un’arma non affilata a sufficienza nella battaglia anti-Covid può avere effetti devastanti. La diagnostica, la ricerca e il conseguente isolamento dei positivi, in attesa di cura e vaccino efficaci, rappresentano infatti uno dei pochi strumenti in mano alla sanità pubblica per arginare la diffusione del Covid-19.
Durante la prima ondata a disposizione c’era solo il tampone molecolare, il bastoncino infilato nel naso e nella gola, che va a cercare l’Rna virale. Ci mette un bel po’ di ore a essere processato e rappresenta quello che in gergo si definisce “gold standard” nell’identificazione e diagnosi del virus.
Poi sul mercato sono apparsi i test rapidi. Stesso bastoncino (con reagente) che però dà il risultato in pochi minuti. Cosa cercano? L’antigene virale, dei pezzi di virus.
Il Veneto è stato tra i primi a testarli, ad acquistarli, a usarli. Il governatore Luca Zaia non lo ha mai nascosto: «I tamponi rapidi rappresentano il futuro». Altre regioni si sono accodate, tanto che in corso c’è una gara d’appalto del valore stimato di 148 milioni di euro. Veneto capofila, con dietro Lombardia, Emilia, Lazio, provincia autonoma di Trento, Friuli e Piemonte.
L’obiezione allo studio di Crisanti viene quasi da sè. L’antigenico non ha rilevato il Covid-19 perché era troppo bassa la carica virale.
Il professore è granitico nella sua analisi: «È opportuno sottolineare che nei campioni risultati negativi al test antigenico vi siano ben sei casi di pazienti con carica virale molto elevata (intervallo di cicli fra 17 e 26). Uno di questi pazienti è stato richiamato per ripetere le analisi, eseguendo di nuovo il test antigenico, che ha dato esito negativo, mentre risultava positivo al test Diasorin (molecolare, ndr). Questa osservazione suggerirebbe la presenza nella popolazione virale di varianti genetiche non identificate dal test antigenico». Questa la conclusione sul fronte dei test Abbott.
Lo Spallanzani ha analizzato altri due test antigenici rapidi. Questi i risultati: lo Standard Q Covid-19 SD Biosensor e lo standard F Covid-19 Ag Fia Sd Biosensor. Per il primo è stata rilevata una sensibilità del 21,95 %, per il secondo del 47,2. Lo Spallanzani ha rilevato - sulla stessa linea di quelli ottenuti in azienda ospedaliera- percentuali basse di sensibilità nella rilevazione dei pazienti positivi. Questi dati, vanno ad aggiungersi all’analisi di Crisanti che ha sempre sostenuto che il controllo rappresenti la miglior difesa della salute pubblica. —
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