Dal caso di don Spoladore ai preti impreparati al dialogo
In un comunicato ufficiale sul caso Spoladore la Curia di Padova parla di dolore e di sconcerto. Di dolore lo posso anche capire, ma di sconcerto no, questo non riesco proprio a comprenderlo. E poi, sconcerto per che cosa? Perché don Paolo avrebbe un figlio? A dar credito a voci bene informate, non sarebbe l’unico sacerdote della Diocesi a trovarsi in una simile situazione. Solo che secondo una prassi collaudata riconoscere un figlio per un sacerdote comporterebbe l’allontanamento dal proprio ministero. Meglio allora non riconoscere ufficialmente nessun figlio e magari essere trasferiti ad altro luogo e ad altro incarico, meglio ancora se fuori Diocesi.
Il problema così travalica il semplice caso Spoladore, anche se il grido di dolore che sale dalla Curia padovana si guarda bene dall’affrontare gli interrogativi più vasti che il caso, qualora fosse comprovato, comporta e come sempre riduce il tutto a una semplice questione individuale. Lo scandalo vero, infatti, non riguarda le eventuali defezioni alla legge del celibato, ma caso mai il modo prevalentemente negativo con cui si è educato e si continua ancora a educare al celibato. Lo scandalo consiste nella obbligatorietà e nella severità della legge del celibato e nell’ossessivo gridare allo scandalo ogniqualvolta un prete, quando finalmente affronta la vita, scopre di non esservi tagliato. Lo scandalo caso mai consiste nella devastazione umana di una educazione spiritualistica che comprime fino quasi a negarla ogni affettività e nella grande sofferenza con cui molti preti, non solo quelli che lasciano ma anche molti di quelli che continuano convintamente ad esercitare il loro ministero, si sono riappropriati e si riappropriano della loro umanità.
La Curia di Padova, si dice, ha aperto un’indagine sull’insegnamento di don Paolo. Era ora. Ma sarebbe anche ora che si aprisse un’indagine su tanti altri insegnamenti. Sembra infatti che al momento, ma già da tempo è così, la preoccupazione predominante sia quella di «riempire i buchi», così che nessuna parrocchia rimanga senza prete. Che cosa poi e in che modo i preti insegnino, questo sembra molto meno importante.
A girare per le chiese della Diocesi capita a volte di imbattersi in celebrazioni e predicazioni che coinvolgono e fanno effettivamente riflettere, ma può anche capitare di imbattersi in proclami ossessivi, deliranti, oppure in sciatterie e parastregonerie che fanno venire la voglia di uscire di chiesa. La realtà è che la nostra tradizione veneta ha a lungo proposto come modello i preti del fare, del costruire, del restaurare (il così detto male della pietra), e ancora dell’amministrare, dell’organizzare, salvo poi non sapere come rendere effettivamente educative le strutture e le iniziative realizzate.
Ci troviamo così di fronte a molti preti che oltre a fornire i propri catechisti di un testo e di una guida, non sono poi in grado né di accompagnarli, né di consigliarli né di formarli, incapaci essi stessi di fare catechismo. Ci troviamo di fronte a una vasta fascia di preti che non avendo continuato a curare nel tempo la propria formazione teologica, biblica, etica e pastorale, sono ormai incapaci di proporre una catechesi adeguata per quei laici che cercano un sostegno alla propria ricerca di fede. Non parliamo poi del dialogo con le generazioni più giovani. E questo è, purtroppo, il punto di arrivo di una deriva durata oltre due decenni, in cui a partire dall’alto è predominata la paura di affrontare i problemi o forse anche la speranza che il dilazionarne la soluzione potesse automaticamente risolverli.
Come meravigliarsi, allora, se la gente va in cerca di guru, di apparizioni, di guarigioni, di emozioni, magari anche di identità chiuse e paurose? Che cosa viene offerto loro in alternativa di valido e di costruttivo?
*cooperatore festivo
Argomenti:curia di padova
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova
Leggi anche
Video