Davide D’Amico, l’arte del chirurgo

«Il nostro è uno dei pochi centri dove si fanno tutti i trapianti di fegato»
Padova 20080206 DAVIDE D'AMICO DAVIDE D'AMICO PROFESSORE MEDICO CHIRURGO (MATTOSCHI/Mattoschi)
Padova 20080206 DAVIDE D'AMICO DAVIDE D'AMICO PROFESSORE MEDICO CHIRURGO (MATTOSCHI/Mattoschi)
Il professor Davide D’Amico, clinico chirurgo dell’Università di Padova e direttore del Dipartimento Assistenziale Integrato di Chirurgia Generale e Trapianti d’organo, ha scritto diversi libri, alcuni dei quali sono manuali di chirurgia per studenti e specializzandi. Uno però, il più piccolo, si intitola «Le mani del chirurgo: lo specchio di un’arte».


Nel volume ci sono profonde riflessioni sull’arte chirurgica, fotografie di trapianti del fegato, ordinate cronologicamente, con la data vicino, ma vi è anche riprodotta «La creazione dell’uomo» dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina: Dio Padre, quello biblico, barbuto, sfiora con l’indice l’indice di Adamo e il soffio della vita, lo pneuma, corre dal Creatore alla creatura.


La sera del 23 novembre 1990, il primo trapianto di fegato. Nella descrizione che ne fa D’Amico c’è della magia e c’è anche la passione di una sfida vincente: «Completata la ricostruzione dell’arteria, l’organo risuscita, diventa vivo. Prima è grigio-biancastro, sembra un fossile, conservato a 4 gradi sotto zero, quando il sangue lo pervade diventa rosso ardesia, è il colore della rigenerazione e della funzionalità».


«Così è iniziata l’attività di trapianto epatico a Padova - dice il professore - e, grazie a un lavoro di squadra che ha intrecciato insieme diversi saperi, da quel lontano 23 novembre sono stati eseguiti quasi 800 trapianti epatici, ridando vita e salute ad altrettanti pazienti terminali. All’inizio, la nostra era un’attività pionieristica a cavallo tra la ricerca scientifica e l’applicazione clinica, oggi la trapiantologia epatica è cresciuta e maturata in un contesto favorevole come quello di Padova, integrandosi con altre eccellenze dell’Azienda-Ospedale. Così nel Centro Trapianti confluiscono le tecnologie, le emozioni, i saperi di chirurghi, trapiantologi, anestesisti, gastroenterologi, internisti, radiologi, anatomo-patologi, infettivologi e tante altre figure professionali. Questo macrocosmo è valorizzato da una straordinaria intesa diagnostico-terapeutica che ci ha consentito di raggiungere risultati importanti: 75 trapianti l’anno con una sopravvivenza superiore al 92 per cento a un anno dall’intervento. Sono valori che superano le medie europee».


Insomma, professore, la sua è una di quelle specializzazioni che provocano un effetto valanga su tutta la struttura ospedaliera...
«Certo, la nascita del Dipartimento di Chirurgia Generale e dei trapianti d’organo che io dirigo è avvenuta attraverso l’integrazione e l’ottimizzazione di vari processi. Si è formalizzata l’attività di trapiantologia epatica da me iniziata e guidata oggi dal professor Umberto Cillo e quella di rene e pancreas avviata dal professor Ermanno Ancona e ora diretta dal prof. Paolo Rigotti».


Ma qual è l’offerta terapeutica che questo centro percorso da una forte innovazione tecnica e tecnologica mette oggi a disposizione dei pazienti?
«Il nostro è uno dei pochi centri italiani in cui vengono eseguiti tutti i tipi di trapianto di fegato. Quello tradizionale avviene da donatore che si trova nello stato di morte cerebrale e l’organo viene impiantato in toto sul paziente ricevente a cui viene rimosso e sostituto il fegato malato. Ma facciamo anche trapianti parziali da donatore vivente, la cosiddetta tecnica dello split. Questa metodica inizialmente era stata messa a punto per far fronte alla richiesta di organi per i bambini, ma oggi trova applicazione anche nel trapianto di fegato degli adulti».


Come si procede?
«Il fegato viene diviso in due porzioni al momento del prelievo e, successivamente, così diviso, viene utilizzato per due pazienti adulti o per un adulto e per un bambino. Grazie a questa tecnica l’Italia è il paese con la minore attesa in lista pediatrica. Il professor Cillo ha effettuato un trapianto su un neonato, il piccolo aveva poco più di 40 giorni e pesava poco più di 3 chili. L’intervento era l’unico mezzo per salvarlo, soffriva infatti di una grave forma di insufficienza epatica che l’avrebbe fatto morire. Lei si renderà conto, anche, che nel caso di donatore vivente, a parte le condizioni di compatibilità (chi dona è un parente) si produce un carico aggiuntivo di responsabilità perché il prelievo viene effettuato su una persona sana che deve rimanere tale e quindi l’organo che subisce questa asportazione parziale deve mantenere tutta la sua funzionalità. Ho parlato di compatibilità, gruppo sanguigno ecc. che va accertata con una serie di analisi precise su chi dona e su chi riceve, ma ci sono anche altri problemi. Uno si chiama tecnicamente match di taglia è una questione quasi sartoriale. Lei deve sapere che un fegato pesa mediamente da 1200 a 1800 grammi e che è soggetto a peculiarità antropologiche: come ci sono persone con i piedi o le mani grandi, ce ne sono con il fegato di maggiori dimensioni e viceversa. Di questo va tenuto conto. Così a volte si verifica che un paziente in attesa viene chiamato e poi rimandato a casa, l’operazione è rinviata e si cerca un altro donatore perché quel fegato non è adatto alla persona. Noi, di solito, in una lista d’attesa prendiamo in considerazione i primi 5 o 6 pazienti proprio per far fronte a questo fattore di variabilità. Ci sono anche questioni di potenza, il fegato è come una nuova batteria in una macchina. Sono importanti anche le condizioni generali del paziente. Quindi è obbligatorio uno screening impeccabile e una cadenza di step che non ammette eccezioni. Pensi che un’operazione di trapianto mobilita dalle 16 alle 20 persone, dal primario allo specializzando ed al team infermieristico».


Quanto dura e quanto costa un’operazione di trapianto?
«Può durare dalle 5 alle 8 ore o anche di più se insorgono problemi particolari. Ci sono interventi che richiedono molto sangue, altri meno, altri ancora nessuna trasfusione. Data la complessità dell’organo, un trapianto di fegato non è mai routine, ogni caso è un caso a sé. E’ questa complessità che fa delle mani del chirurgo lo strumento di una vera e propria arte. L’operazione non può che essere gratuita, il costo è invece mediamente attorno ai 100 mila euro».


Nel caso infausto di cancro al fegato, il cosiddetto epatocarcinoma, il trapianto è l’unica terapia possibile?
«Sempre! Noi abbiamo grande esperienza in materia e in questo contesto è nata l’idea di rielaborare i criteri di trapiantabilità. Attualmente ci sono criteri che escludono la possibilità del trapianto se il nodulo tumorale supera i 5 centimetri o ce ne sono tre più grandi di tre centimetri, ma è una materia tutta in divenire. Il motore dell’approvvigionamento di organi è il Centro di Milano (NIT - Nord Italian Transplant). L’integrazione tra Azienda Ospedaliera e Università consente un rapporto felice tra terapia e ricerca. Oggi abbiamo a disposizione per il trattamento dell’insufficienza epatica acuta una macchina per ultrafiltrazione di nuova concezione. Si chiama Prometheus. Per dare un’idea equivale alla dialisi per le patologie renali trasferita al fegato».


Lei è un allievo del professor Cévese. Cévese aveva diverse corde che componevano il suo violon d’Ingres, per esempio la passione per la storia dell’arte. Qual è il suo hobby?
«Il professor Cévese aveva una grande cultura umanistica; scrittore e poeta, era un cultore della fotografia, amava andare a cavallo. Una personalità ricchissima che io non ho. Io ho un solo hobby ed è quello di vivere in assoluta simbiosi con la chirurgia, di lasciare un’eredità di sapere che non finisca con me, ma che si perpetui e si allarghi e si approfondisca perché la nostra è la cultura che serve a salvare vite umane al di sopra di ogni altro condizionamento. Un’attività intensa e possessiva come quella del trapianto non mi consente di avere hobbies, ma solo disponibilità verso i malati. Mi piacerebbe, però, utilizzare questa mia esperienza, oltre che in ambiente accademico e ospedaliero, anche nel mondo sociale».


Lei crede in Dio?
«Certo, talvolta ho anche pregato perché un’operazione difficile andasse a buon fine».


Ci sono bisogni urgenti da soddisfare esigenze che il Centro sente intensamente?
«C’è bisogno di risorse di ordine logistico ed umano. Noi siamo impegnati in un continuo follow up, in una serie di monitoraggi e controlli su una popolazione di 800 trapiantati che aumenta ogni anno al ritmo di una settantina di unità. Questa attività si incrocia con l’impegno in sala operatoria. Insomma, il ritmo è all’ultimo respiro, non consente tregue, è terribilmente spossante e non sempre gratificante. I nostri pazienti fanno parte di una grande famiglia, li conosciamo uno per uno, sappiamo i loro nomi. Noi vogliamo lavorare bene ma continuare a farlo con mezzi tecnici all’avanguardia e con risorse umane d’eccellenza. La nostra attività va molto al di là del tradizionale bacino di utenza: il 50 per cento dei nostri pazienti viene da altre regioni: Sicilia, Calabria, ma anche Lombardia e Nordest europeo».


Questo dipartimento è un gioiello dell’Azienda Ospedaliera fortemente attivo. Un motore per la ricerca oltre che per l’assistenza. La grande paura è che nel lavoro di progettazione, realizzazione e ridistribuzione che sarà legato al nuovo ospedale si possa disperdere, per carenza di spazio o per altri ragioni, un grande patrimonio di sapere specialistico e di perizia tecnica e di eccellente professionalità. La città, ma anche la società civile non possono permetterselo.

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