Donne in moschea, non ci si speculi

Forse il più alto risultato della crescita civile dei Paesi occidentali nel ’900 è l’uguaglianza dei diritti delle donne e degli uomini. Potrà esserci ancora tanta strada da percorrere prima di realizzare appieno le pari opportunità.


Ma il principio è raggiunto ed è anche entrato nelle menti e nei cuori della gente, e non solo nelle leggi. E’ chiaro che per nessun motivo si potrà tornare indietro. Ed è chiaro che questo rappresenta un ostacolo all’integrazione piena, fino alla cittadinanza, di molti immigrati, in particolare di quelli musulmani. Ciò detto, bisogna stare attenti a non creare, per eccesso di zelo, falsi problemi e falsi bersagli: sarebbe contrario al senso di giustizia e sarebbe inopportuno sul piano politico, perché la falsità andrebbe a indebolire e non a rafforzare le ragioni dell’intransigenza sul piano dei principi. Un buon esempio di questo errore è lo «scandalo» sulla discriminazione delle donne in moschea, fatte entrare da una porta riservata e sistemate in una zona separata da quella degli uomini.

 

Senza entrare qui nell’accesa controversia della moschea a Padova, che ha molti profili, osservo che questo particolare argomento è non solo mal posto, è addirittura controproducente. E’ mal posto perché lo Stato liberale ha da sempre assunto il criterio della irrilevanza della religione e dei suoi riti. «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione o per proibirne il libero culto», dichiara già dal 1787 la Costituzione americana. E per restare a casa nostra, dice la Costituzione della Repubblica Romana del 1849: «Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici». Nessuna meraviglia, quindi, che la nostra Costituzione abbia dichiarato che le confessioni religiose, ugualmente libere davanti alla legge, «hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano» (articolo 8). Ma la richiesta di vietare la moschea in base alla discriminazione che subirebbero le donne è anche controproducente. Si pensi all’incontestabile replica di incoerenza che verrebbe mossa nei nostri confronti di fronte alle testimonianze del nostro passato: di fronte, cioè, ai matronei delle nostre basiliche e alla vecchia usanza nelle nostre parrocchie, ancora vigente nella mia infanzia, di tenere separati ragazze e ragazzi nelle «messe prime» (essendo tradizione che i genitori andassero alla messa del parroco, verso le ore 10 o 11). L’effetto controproducente sui musulmani di tali accuse, che essi considererebbero quindi in malafede, sarebbe pertanto di ricompattarli e irrigidirli.

 

Si pensi inoltre e soprattutto agli esiti chiaramente dirompenti cui porterebbe oggi l’accusa di discriminazione, se fosse presa sul serio. La separazione è ancora esistente nelle sinagoghe ortodosse, dove le donne stanno solo nel matroneo di fronte all’Arca e non possono leggere la Torah. Allora, impediamo che si costruiscano sinagoghe? E poi, nel momento in cui giudichiamo gli altri, pensiamo a come noi siamo visti dagli altri.

 

Senza entrare minimamente nel merito della questione, si sa che milioni di persone di religione protestante - tra cui ci saranno bene anche individui equilibrati e tolleranti - ritengono che la Chiesa cattolica operi una intollerabile discriminazione contro le donne, impedendo loro di diventare sacerdoti e vescovi (che è cosa ben più grave della tradizione dei posti separati in chiesa!). Come reagiremmo se ci dicessero che l’Inghilterra anglicana vieta per tale motivo la costruzione di chiese cattoliche? Da ultimo, ricordiamoci che nell’Islam, a differenza della religione ebraica e di quelle cristiane, i fedeli pregano non inginocchiati o seduti, bensì prostrati. Allora, anche il buon senso suggerisce di tenere separati i due sessi. O lo Stato deve legiferare pure in questo campo? In conclusione, lasciamo che ognuno preghi il proprio Dio come meglio crede e restiamo vigili a difesa dei diritti civili che lo Stato laico conferisce e garantisce.
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