Droga, armi, esseri umani. E soldi, tanti soldi: i business delle mafie a Nordest

Il libro inchiesta in cui il "segui il denaro" del giudice Falcone diventa la caccia ai “schei”. Bisogna saper vedere dove sembra non succedere nulla, dove il contesto protegge e nasconde: ecco come
epa02064801 One of six suspects believed to be be affiliated to Camorra clan Rea-Veneruso is being arrested by Anti-Mafia Investigations Directorate (DIA) and police officials under the command of the Anti-Mafia District Directorate (DDA) in Naples, Italy on 04 March 2010. They are suspected of organized crime, usury and extortion. EPA/CIRO FUSCO HANDCUFFS PIXELLATED BY THE SOURCE*************** TRADUZIONE ***************epa02064801 Uno di sei sospetti crederono stato stato affiliato a clan di Camorra Rea-Veneruso è arrestato da Consiglio d'amministrazione delle Investigazioni dell'Anti-mafia (DIA) ed ufficiali di polizia sotto il comando del Consiglio d'amministrazione del Distretto dell'Anti-mafia (DDA) a Napoli, Italia 04 marzo 2010. Loro sono sospettati di malavita, usura e l'estorsione. EPA/CIRO FUSCO Handcuffs PIXELLATED Di La Fonte
epa02064801 One of six suspects believed to be be affiliated to Camorra clan Rea-Veneruso is being arrested by Anti-Mafia Investigations Directorate (DIA) and police officials under the command of the Anti-Mafia District Directorate (DDA) in Naples, Italy on 04 March 2010. They are suspected of organized crime, usury and extortion. EPA/CIRO FUSCO HANDCUFFS PIXELLATED BY THE SOURCE*************** TRADUZIONE ***************epa02064801 Uno di sei sospetti crederono stato stato affiliato a clan di Camorra Rea-Veneruso è arrestato da Consiglio d'amministrazione delle Investigazioni dell'Anti-mafia (DIA) ed ufficiali di polizia sotto il comando del Consiglio d'amministrazione del Distretto dell'Anti-mafia (DDA) a Napoli, Italia 04 marzo 2010. Loro sono sospettati di malavita, usura e l'estorsione. EPA/CIRO FUSCO Handcuffs PIXELLATED Di La Fonte

Un’indagine giornalistica svela le trame che la criminalità organizzata – italiana e straniera – ha tessuto nel Nord-Est italiano. Mentre la crisi economica svuota i capannoni industriali che ne costellano il paesaggio, ampie aree economiche del Nord-Est si scoprono governate dalla criminalità organizzata, che gestisce i business più redditizi, dal turismo nel centro storico di Venezia all’agroalimentare, per non nominare gli affari tradizionali di chi opera nell’illecito: dalla droga alla prostituzione. Nel frattempo, i capannoni si stanno riempendo di nuovo, e questa volta sono stivati di rifiuti tossico-nocivi.

Un libro su una parte dell’Italia considerata ingenuamente immune dal cancro che avvelena altre regioni, e su cui è importante gettare un fascio di luce. Luana de Francisco e Ugo Dinello conducono una rigorosa inchiesta dando la parola agli specialisti delle forze dell’ordine, svelando le nuove rotte del crimine organizzato, raccontando le connivenze dell’area grigia, e, da ultimo, proponendo alcune soluzioni perché il cancro non dilaghi: il crimine organizzato può essere battuto e anche il Nord-Est può fare la sua parte nella lotta per la legalità.

Luana de Francisco, goriziana, giornalista del “Messaggero Veneto”, collabora con “la Repubblica” ed è vice coordinatore dell’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia Giulia.

Ugo Dinello, veneziano, è giornalista dei quotidiani del gruppo Gedi. È stato premiato dall’Unione nazionale cronisti italiani e dall’Ordine dei giornalisti per le sue inchieste su Unabomber ed è tra i promotori della protesta contro le leggi bavaglio alla stampa.
 

Ecco, su gentile concessione dell'editore, la prefazione al volume

Luana de Francisco - Ugo Dinello
Crimini a Nord-Est

Editori Laterza
collana: «i Robinson / Letture»
2020, pagine 256, €18,00

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Mappe

Droga, armi, esseri umani. E soldi, tanti soldi. Basta uno sguardo alla carta geografica per capire come il Nord-Est d’Italia sia al centro dei tre grandi traffici che alimentano il crimine internazionale che a sua volta foraggia il crimine locale. In questa macroregione la rotta balcanica della droga si congiunge a quella dal Meridione. Sempre qui convergono da Est i carichi di armi serbi e croati via terra e via mare e la tratta di esseri umani gestita da turchi, serbi, cinesi, albanesi e rumeni attraverso il confine orientale, pianeggiante o fatto di dolci colline, comunque del tutto teorico dopo il trattato di Schengen. Un fiume di persone, ben lontane dai fari dei vari ministri dell’Interno, in movimento prevalentemente dall’Est Europa e poi dal Medio Oriente. Nel bel mezzo di tutto ciò, quasi una conseguenza logica, l’unica mafia nata al di fuori delle regioni meridionali, la mafia del Brenta, che per anni ha gestito i flussi degli stupefacenti e inondato il Veneto di eroina e di migliaia e migliaia di tragedie di droga.

Accanto a questa mappa geografica c’è anche una mappa economica. Due delle tre regioni di quest’area sono a statuto speciale, una, il Trentino Alto Adige, con un enorme flusso continuo di denaro assicurato dai trattati di Vienna sull’autonomia dell’Alto Adige e di riflesso anche sulla provincia autonoma di Trento; l’altra, il Friuli Venezia Giulia, con robuste iniezioni di denaro pubblico legato alla ricostruzione e al potenziamento delle strutture post-terremoto, alla legge sulle aree di confine e alla cantieristica. La terza infine, il Veneto, ha invece sviluppato negli anni del boom un’impressionante scalata al primato economico nazionale, basata su un’imprenditoria diffusa a bassa sindacalizzazione e su tre punti di attrattiva turistica internazionale (Venezia, le spiagge della costa veneta e i poli termali) oltre alle opere pubbliche, tra cui quella che ha generato la più grande mazzetta e il più articolato tessuto corruttivo della storia italiana: il Mose.

Tutti particolari che piacciono molto alle mafie.

La criminalità organizzata cerca infatti di aumentare e riciclare i propri capitali illeciti per fare affari ancora più grandi. Se una persona “fa soldi a palate” grazie allo spaccio di droga avrà l’enorme problema di giustificare quella ricchezza: forze dell’ordine e magistratura apriranno indagini che inevitabilmente porteranno al carcere e a sequestri di beni. Se io riciclo queste ricchezze illecite in imprese lecite per nasconderne la provenienza potrò invece usarle per fare altri soldi, di cui questa volta posso giustificare la provenienza, cioè amministrativamente “leciti”.

Nella realtà il sistema di partenza più veloce per arrivare a questo risultato è attivare aziende di movimento terra che partecipino ad appalti pubblici. In questo modo la spesa è minima (basta rilevare l’azienda dopo averla messa in difficoltà bruciandone, ad esempio, i macchinari) e il potere criminale potrà essere usato per intimidire le altre aziende che vorrebbero partecipare all’appalto. Così si crea anche un potere diffuso a livello sociale, sotto forma di posti di lavoro e impieghi promessi, in grado di sviluppare una forma di controllo del territorio.

Un secondo sistema di “lavaggio” dei capitali illeciti usato a Nord-Est è quello del gioco d’azzardo: gli uffici fidi dei 62 casinò, di varia forma e dimensione, sparsi tra Triveneto, Austria, Slovenia e Croazia, hanno il compito di fornire credito a tassi esorbitanti ai giocatori. Se un’organizzazione criminale assume il controllo di questi uffici, il risultato sarà che intere partite di droga vengono riciclate in una sola serata.

Lo stesso si può dire per il sistema delle scommesse illecite on-line che è stato gestito dalle mafie proprio da Padova.

La vicinanza con Paesi nella cui legislazione è stato a lungo previsto – e in alcuni casi lo è ancora – il segreto bancario (Austria, Svizzera, ex Jugoslavia e Liechtenstein) ha permesso negli anni di celare con maggiore facilità buona parte dei “tesori” illeciti accumulati oltre a rendere molto più semplice l’accumulo continuo di “nero” e la conseguente impennata di fenomeni di autoriciclaggio (cioè il riciclaggio di beni generati da un crimine compiuto dallo stesso riciclatore) di somme frutto di evasione fiscale, che hanno portato il Veneto a raggiungere per più anni il primato nazionale in questo campo, con un accumulo di soldi senza nome che cercavano solo uno sbocco. Sbocco sui mercati esteri che ovviamente può essere offerto esclusivamente da organizzazioni senza scrupoli in grado di ricollocarlo al di fuori della legge.

Da notare poi come ogni timido tentativo di correzione e di svuotamento di questo “mare nero” di evasione che alimenta il crimine organizzato sia stato negli anni, oltreché privato d’ogni effetto con la politica nazionale dei condoni fiscali, anche frontalmente contestato: non a caso proprio nel Nord-Est è nato il movimento Life (Liberi imprenditori federalisti europei) che reagiva ai controlli fiscali assaltando, letteralmente, gli operatori e le caserme della guardia di finanza.

La mappa politica mostra invece tre regioni molto conservatrici, con ricambio amministrativo pressoché nullo, dove la bussola elettorale ha sempre premiato la stessa area, al di là delle denominazioni. Il crollo della Democrazia cristiana, partito egemone per mezzo secolo, conseguente alla cosiddetta “seconda repubblica”, ha comunque visto l’area del centrodestra governare ininterrottamente per un altro quarto di secolo in due regioni su tre (il Friuli ha avuto una breve parentesi di centrosinistra di tipo renziano) , con forti caratterizzazioni culturali basate sulla rivendicazione di una “diversità” sociale, se non etnica, nei confronti del resto della Penisola, soprattutto del Meridione.

Una cultura che inevitabilmente si è limitata per decenni alla valorizzazione delle “aiuole fiorite lungo le strade” come carattere distintivo ma anche alla negazione della presenza di fenomeni criminali “foresti” e soprattutto alla rimozione dell’esistenza di criminalità organizzata autoctona. Basti pensare che la politica e la stampa si riferiscono ancora alla mafia del Brenta con il diminutivo di “mala del Brenta”. Una differenza lessicale minima che ne cela una sostanziale importante.

Nemmeno la scoperta in Veneto della corruzione diffusa ai massimi livelli politico-amministrativi conseguente allo scandalo Mose, mai simultaneamente rilevata in alcuna altra zona d’Italia in tali proporzioni, è riuscita in realtà a generare un mutamento significativo alla guida della macchina regionale, cioè della più grande centrale di appalti pubblici.

In questo contesto, il sistema giudiziario è apparso debole e impreparato nel confrontarsi con fenomeni criminali organizzati e per quindici anni fino al 2018 i provvedimenti basati sull’articolo 416 bis del codice penale (che colpisce l’associazione criminale di tipo mafioso) qui sono stati più unici che rari.

Un humus politico, amministrativo, sociale e soprattutto culturale in cui la prima organizzazione mafiosa italiana ad affacciarsi a Nord-Est, Cosa nostra siciliana, ha avuto gioco facile. Usando la presenza dei confinanti e la rete di personaggi che ogni boss importava a sua protezione e per mantenere i contatti, la mafia isolana, che già aveva messo i suoi uomini nell’ex Jugoslavia e in Friuli per la gestione del traffico di armi, ha potuto sfruttare a piene mani la mafia veneta e indirizzare i giovanissimi e inesperti boss locali verso il controllo dei cambisti del casinò di Venezia, il tutto alla fine degli anni Settanta, quando il capo dei veneti, Felice Maniero, aveva 25 anni.

Questo primo passo ha permesso di arrivare quindi al controllo e alla gestione degli uffici cambi dei casinò jugoslavi grazie ai proventi dello spaccio di eroina. Infine alla immobilizzazione del “tesoretto” così ottenuto nel patrimonio e nei servizi turistico-ricettivi, attività in cui Cosa nostra, grazie a una serie vorticosa di passaggi societari tra soggetti esteri, ormai non teme rivali.

È interessante notare a questo proposito che all’interno del fiume di dichiarazioni rilasciate da Felice Maniero dopo il suo pentimento (1994) solo due argomenti sono stati sempre elusi: dove sia finito il denaro delle sue malefatte e quali fossero i suoi rapporti con Cosa nostra.

Sul primo punto Maniero allarga le braccia indirizzando l’opinione pubblica a 11 miliardi di vecchie lire, poi diventati 33, che lui aveva affidato alla sorella Noretta e che venivano amministrati dall’ex cognato, il dentista Riccardo Di Cicco. Inutile dire che una somma del genere a Maniero sarebbe durata ben poco tempo visto che non esitava a pagare in contanti yacht che ben sapeva non avrebbe potuto tenere più di qualche mese.

In realtà il vero tesoro non è mai stato cercato, né tantomeno trovato, anche se molti sottufficiali dei carabinieri che all’epoca avevano combattuto la mafia del Brenta indicano in Venezia e nel suo sistema turistico-ricettivo la vera cassaforte primaria delle società del boss.

Sul secondo punto, cioè i suoi legami con Cosa nostra, vale la pena notare come Maniero, il cui pentimento ha portato sotto inchiesta 142 persone (e non 500 come da lui sempre affermato e come spesso erroneamente riportato), non abbia coinvolto nemmeno un siciliano, campano o calabrese: solo veneti.

Ovvio che un così esiguo numero di persone, in stragrande maggioranza “pesci piccoli” (al processo gli imputati si sono subito ridotti a 50 e solo a 32 è stata contestata l’associazione mafiosa), non poteva governare da solo il Nord-Est com’è invece avvenuto, al punto da conquistare a uno a uno tutti i capisaldi del crimine e del riciclaggio: dagli hotel, alle agenzie turistiche, agli uffici fidi dei casinò, al controllo delle attività dei cambisti, allo smercio e spaccio di eroina, alle rapine, al racket del gioco d’azzardo. Boss di primo livello di Cosa nostra hanno guidato passo passo le scelte dei “veneti”.

Gaetano Fidanzati (mandato al confino proprio in Riviera del Brenta assieme a Totuccio Contorno, Antonino Duca e al nipote di Gaetano Badalamenti, Salvatore) è stato l’uomo inviato dalla cupola con una missione e diventato il boss dei boss nel Settentrione, colui che ha ideato l’espansione del business della mafia fuori dalla Sicilia per sfuggire alla morsa delle indagini e “nuotare tra i soldi come pesci nell’acqua”. L’uomo della finanza, che con Giuseppe Bono e Salvatore Enea ha infiltrato i vertici di numerosi istituti di credito lombardi, creando le “stidde”, le stelle, quella costellazione di società anonime nate prima in Lussemburgo e via via nei vari paradisi fiscali del globo con un sistema a “matrioska” e scambi incrociati.

Quel don Tano che sarà il regista dell’espansione della mafia del Brenta, portandola a controllare prima di tutto i casinò, la vera stanza di riciclaggio capace di assicurare una barca di soldi a chi la sapesse difendere, poi i gangli economici principali dell’economia turistica.

Per questo la notte del 10 ottobre del 1980, quando Felice “Felix” Maniero prese possesso armato del casinò di Venezia, imponendo il pizzo ai cambisti, accanto a lui, fisicamente, c’era proprio Gaetano Fidanzati, che venti mesi prima aveva fatto arrivare a Venezia Giuseppe Bono e Salvatore Enea da Milano (dove Enea era tornato dopo aver espiato gli anni del confino a Cadoneghe, in provincia di Padova) per la valutazione economica dell’investimento in laguna e il placet delle famiglie al “piano dei casinò”, primo passo per la conquista di Venezia .

Venezia, “il paradiso dei mafiosi”, come veniva chiamata dall’allora capo della squadra mobile, Arnaldo La Barbera, ha suscitato l’attenzione della Commissione parlamentare antimafia dopo che, a partire dal 1984, Fidanzati ha iniziato a investire massicciamente in centro storico il frutto dello spaccio di eroina da loro governato e con cui hanno devastato migliaia di famiglie.

Le prime a lanciare l’allarme sono le Camere di commercio seguite dagli uffici periferici di Banca d’Italia che, pur con i tempi tipici della burocrazia e con i loro rapporti battuti a macchina in triplice copia, dalla fine degli anni Ottanta rilevano come gli alberghi, i ristoranti e i bar del centro storico lagunare stiano passando velocemente di mano con “pagamenti in contanti” pari “fino a otto volte i valori di mercato”.

Persone che vantano una parentela diretta con Maniero vengono incaricate di procedere agli acquisti sistematici. Un piano coordinato, una serie di acquisizioni a tamburo battente dopo che si è preso il controllo di intere associazioni di categoria.

La Commissione antimafia, quindi, il 13 gennaio 1994 mette per la prima volta nero su bianco la “Relazione sulle risultanze del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti e organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali” (relatore Carlo Smuraglia), scrivendo che in Veneto “settore di particolare interesse per la criminalità organizzata è quello turistico-alberghiero nel quale le forze dell’ordine locali registrano in preoccupante aumento il turnover delle proprietà con acquisti, che avvengono in contanti, a prezzi giudicati molto elevati e completamente al di fuori del mercato”.

Incredibilmente lo Stato, capace d’incaponirsi su un singolo scontrino, non mette in campo le sue forze per intervenire sulla più grande serie di operazioni immobiliari e commerciali concentrate, per luogo e tempi, in una singola località in un determinato periodo.

Un’inerzia che rimane costante nonostante il vorticoso innalzamento dei fatturati registrati dalle singole attività commerciali che hanno cambiato mano: clamoroso il caso di un ristorante a conduzione familiare di pochi metri quadri in zona Accademia, che dopo l’acquisizione da parte di una società della Riviera del Brenta in soli due anni aumenta il fatturato del 500%.

Né, da parte sua, chi ha comprato resta con le mani in mano. Con rare eccezioni gli alberghi e i ristoranti cambiano proprietari in modo velocissimo. Da notare il caso di un albergo del centro storico che, dopo un primo (e unico) controllo fiscale, dal 1999 al 2019 ha cambiato la proprietà sedici volte, tramite società di Paesi dell’Unione Europea, a loro volta detenute da altre con sede a Guernsey e alle Isole Cayman, pur vantando un tasso di occupazione delle camere che, all’epoca del controllo fiscale, arrivava a una media annua del 72%.

Il palese accordo alla base del pentimento di Felice Maniero, che secondo gli altri membri della cosca veneta (quelli poi “venduti” dall’ex boss al momento del suo ingresso nel programma di protezione per i collaboratori di giustizia) ha permesso a Felix di mantenere intatto il proprio tesoro, ha però lasciato strascichi i cui effetti si sentono ancora oggi in tutto il Nord-Est.

L’aver potuto omettere di indicare agli inquirenti i nomi dei politici e dei commercialisti, legali, notai, architetti, imprenditori e consulenti del lavoro che hanno aiutato fattivamente la mafia del Brenta (l’unico accusato da Maniero è stato l’avvocato Enrico Vandelli: radiato e poi riammesso alla professione dalla Cassazione) e di conseguenza Cosa nostra, ha lasciato una zona grigia in sospeso, formata da professionisti che sanno perfettamente di essere ricattabili dallo stesso ex boss e dai suoi emissari, e che restano così “a disposizione” degli affari suoi e delle cosche siciliane.

In questo scenario appare ovvio che il potere economico delle organizzazioni mafiose a Nord-Est è rimasto per molti versi integro e che i pericoli personali derivati dal pentimento sono in realtà pressoché nulli. Non a caso non è un segreto per nessuno che Maniero abiti a Brescia, la provincia lombarda più vicina al Veneto.

Il suo ultimo arresto è avvenuto il 18 ottobre 2019 per le presunte violenze sulla compagna Marta Bisello, sorella della seconda compagna, Rossella, morta nell’aprile del 1989 in circostanze mai chiarite (ufficialmente è deceduta cadendo mentre saliva le scale esterne della casa dei genitori), e potrebbe costargli due anni di carcere. Ma sono in molti a non credere che sia questo il motivo dell’ulteriore “sparizione” di Felix, che avviene in concomitanza con l’uscita dal carcere di Antonio Pandolfo, detto “Mario grosso”, il suo ex braccio destro che ha giurato vendetta. Il 29 ottobre 2019 Pandolfo è uscito dal carcere per entrare in una casa lavoro da cui esce per lavorare e con dei permessi nei fine settimana. La magistratura di sorveglianza gli ha applicato come misura restrittiva il divieto di rientro in Veneto. Misura contro cui lui non ha fatto una piega . Infatti Brescia non si trova in Veneto.

Fedele al comando di “non apparire”, la mafia siciliana ha evitato per quanto possibile di farsi trovare sul luogo del misfatto. Delle decine di boss e quadri intermedi arrestati a Nord-Est nessuno è mai stato fermato a Venezia.

Anzi: dopo il crollo della mafia del Brenta, Cosa nostra per almeno un decennio ha avuto mano libera rilevando tutti i feudi una volta in mano ai veneti e reinvestendo tutti i proventi nell’economia turistica veneta, friulana, trentina, slovena e croata.

Infatti sono stati pochi anche i siciliani che si è riusciti a intercettare al di là della frontiera slovena. Un confine aperto e dal quale passa di tutto. Merce di qualsiasi tipo, quella fatta viaggiare nei doppifondi di camion lungo la rete viaria che corre a cavallo dei confini: droga, armi, soldi, gasolio di contrabbando, auto di lusso e, ovviamente, persone, a loro volta stipate come qualunque altro oggetto clandestino, e scaricate in territorio italiano, al ritmo di parecchie decine di migliaia l’anno ai tempi in cui la crisi migratoria toccò l’apice, a inizio Duemila, e di migliaia anche oggi, con il ritorno alla “rotta balcanica”.

Del resto, dopo la fine della Guerra Fredda, l’autostrada che attraversa il Friuli Venezia Giulia è la più trafficata d’Europa: le merci, anche quelle clandestine, che dall’Olanda devono raggiungere la Turchia via Italia non possono che passare attraverso i varchi di Tarvisio (provincia di Udine) o Fernetti (Trieste).

Tra Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Austria e Slovenia corre un confine nominale. Solo la parte friulana e giuliana è lunga circa 342 chilometri (232 al confine con la Slovenia e 110 con l’Austria), varcata da ogni genere di associazione a delinquere in un senso e nell’altro. Comprese quelle accomunate dal business del contrabbando di armi da guerra dai Paesi dell’ex Jugoslavia. Del resto, gli arsenali presenti nei Balcani farebbero gola a qualsiasi organizzazione criminale. Il rapporto 2017 dello Small Arms Survey, organizzazione indipendente che da anni monitora il fenomeno della diffusione delle armi leggere nel mondo, colloca Serbia e Montenegro al terzo posto della classifica dei Paesi più armati: con 39,1 armi da fuoco leggere ogni 100 residenti, hanno una media inferiore soltanto a Stati Uniti e Yemen. Un mercato impressionante, in cui a fare media sono anche le armi detenute illegalmente e cui si affiancano i non meno imponenti depositi segnalati nel resto della penisola balcanica: in Bosnia-Erzegovina, dove il rapporto è calcolato in 31,2 ogni 100 abitanti, in Macedonia, con 29,8, e in Kosovo, con 23,8.

Qui Gaetano Fidanzati alla fine degli anni Ottanta aveva inviato uno dei suoi uomini più fidati, Giovanni Battista Licata “Cacao”, il tramite attraverso cui, prima con una serie di motoscafi veloci e pescherecci che facevano la spola tra l’Istria e Chioggia quindi con i tir, ha gestito per conto di Cosa nostra buona parte del traffico delle armi, sia per gli arsenali della criminalità organizzata isolana, sia per quelli delle altre organizzazioni criminali, sia, infine, per piazzarle sul mercato internazionale.

E sono sempre i confini a Nord-Est a rappresentare la via privilegiata per un altro business redditizio: la truffa dei carburanti. Una frode di portata transnazionale, appunto, che consente di eludere il fisco italiano alimentando una distribuzione parallela di prodotti petroliferi, estratti per lo più dai pozzi del Caucaso, parcheggiati dopo l’acquisto in depositi posti a cavallo del confine per il disbrigo delle pratiche commerciali – oltre i 200 chilometri dalle raffinerie diventerebbe antieconomico – e inviati infine a una rete di distributori del Centro e Sud Italia compiacenti, spesso collegati alla camorra.

Infine un’ultima mappa, forse la più importante, quella del controllo. In base alla distinzione elaborata nel 1983 dal criminologo americano Alan Block, nel 2013 i sociologi Rocco Sciarrone e Joselle Dagnes hanno elaborato una mappa di power syndicate, cioè di controllo del territorio da parte di organizzazioni criminali. Considerando “alto” il controllo delle organizzazioni mafiose in Sicilia, parte della Calabria, della Campania e della Puglia, nella quasi totalità del Nord negli anni 2008-2011 risultava “basso”. Con l’eccezione di Milano, Torino, Bologna e soprattutto Brescia, dove il livello andava da “medio alto” a “medio basso”.

Il problema nasce quando, dal 2011, gruppi di imprenditori che cercavano di recuperare crediti o di truffare lo Stato si sono tranquillamente rivolti a organizzazioni dichiaratamente mafiose per raggiungere i propri scopi. Nel 2015 a Padova, nel 2017 a Verona, nel 2018 sul litorale veneziano, gli inquirenti si sono trovati davanti a camorristi e ’ndranghetisti che venivano cercati da imprenditori e privati per risolvere celermente i loro problemi. Fino al punto da spingere i carabinieri a informare la Procura che, ad esempio, “a Zimella (Verona) e in provincia [gli ’ndranghetisti della famiglia Multari] sono preferiti agli apparati statali” .

Brescia, cioè la continuità geografica e storica con il Veneto, presenta, in questa analisi, anche un livello “alto” nella enterprise syndicate, cioè la capacità di esercitare traffici illeciti da parte della criminalità organizzata, mentre Verona, Venezia e Padova offrono un grado “medio alto”. La “continuità” si esprime ancora meglio con l’“Indice dei permessi per costruire concessi nelle province italiane (numero di metri quadri di nuove costruzioni e ristrutturazioni, residenziali e non, autorizzati per chilometro quadrato) nel 2010”. In questo caso da Torino a Venezia c’è una cintura di indici “alto” . Un dato estremamente interessante se si pensa che dal punto di vista temporale i primi tipi di penetrazione economica effettuata dalla criminalità organizzata sono quelli in aziende edili e di movimento terra.

Forse non a caso, quindi, tutte e tre le opere pubbliche più importanti in Veneto (porto, aeroporto e Superstrada Pedemontana) secondo la Direzione investigativa antimafia (Dia) sono poi sotto attacco da parte della criminalità organizzata. La Dia rileva infatti che “Rilevanti sono gli investimenti infrastrutturali che hanno interessato il potenziamento del porto di Venezia-Marghera, dell’aeroporto internazionale ‘Marco Polo’ – entrambi scali internazionali per la movimentazione di passeggeri e merci – nonché il completamento dell’importante asse viario della Superstrada Pedemontana Veneta. Queste importanti infrastrutture, unitamente alla ricchezza generata dalle imprese regionali, rappresentano dei canali attraverso i quali la criminalità mafiosa punta ad infiltrare in maniera ‘silente’ l’economia legale, avvalendosi di imprenditori mafiosi che si propongono come soci e finanziatori di imprese in difficoltà, salvo poi rilevarne la proprietà e acquisirne la gestione”. “In questo sistema economico-imprenditoriale, si registra poi l’operato di professionisti e imprenditori che si rivolgono ai mafiosi per fare anche da tramite con la pubblica amministrazione”. Idem per il Friuli: “Le opere infrastrutturali di maggior impegno economico tra quelle in corso di esecuzione sono connesse alla progettazione ed all’ampliamento dell’autostrada A4, attraverso la realizzazione della terza corsia nel tratto Venezia-Trieste. Altrettanto importante, in tema di sviluppo infrastrutturale, è l’espansione commerciale del porto di Trieste, che sta vivendo una fase di rilancio grazie allo status di Porto Franco, un unicum nell’ordinamento giuridico italiano e comunitario. Tali aspetti, da valutare in modo certamente positivo, rendono tuttavia il territorio appetibile per tutte quelle consorterie che, avendo a disposizione ingenti capitali da investire, vedono anche nel Friuli Venezia Giulia un’area di possibile, silente infiltrazione dell’economia legale. Un’infiltrazione, soprattutto di carattere finanziario, che mette in pericolo l’economia sana del territorio e che non può essere sottovalutata” .

Oltre alle mafie italiane, in tutto il Nord-Est si sono sedimentati negli anni nuovi tipi di criminalità organizzata su base etnica. Dal punto di vista operativo i più evidenti sono quelli delle bande albanesi impostate su base familiare, del sistema di controllo cinese fondato sul principio della corruzione, quindi quello nigeriano, impostato su bande a sfondo pseudoreligioso che applicano culti iniziatici ai loro adepti. Ognuno si è specializzato in traffici che le mafie nostrane non trattano più o trattano su livelli diversi. Interessante è notare che anche in questo caso, pur con rilevanti differenze sociali e culturali, nessuno è entrato in conflitto, se non agli inizi, per un breve periodo e limitatamente allo spaccio al minuto della droga. Anche in questo caso il mercato del Nord-Est ha garantito ricchezza per molti.

Non per tutti però. La logica di sfruttamento umano che è alla base del caporalato che viene scoperto sia nelle industrie manifatturiere più pesanti, come la cantieristica o l’edilizia, sia in quella della moda e dei servizi turistici prevede ampie masse di italiani e immigrati senza occupazione disposti a subire ricatti e soprusi pur di poter lavorare e mantenere le famiglie.

Se possibile è ancor più grave il fenomeno dello sfruttamento sessuale organizzato con l’importazione diretta di ragazze da Europa dell’Est e Africa esclusivamente per questo scopo. Un fenomeno che ha fatto quasi scomparire la prostituzione professionale italiana che era la regola sulle strade del Nord-Est fino agli anni Novanta.

Un mix di interessi transnazionali per vari affari in comune, con l’unica eccezione del traffico dei rifiuti e delle agromafie, fenomeni che sono infatti interamente in mano a organizzazioni criminali italiane e il cui tasso di crescita è spaventoso. Un particolare che fa apparire il business dei rifiuti e quello del cibo adulterato come gli affari criminali per eccellenza nel futuro a breve-medio termine in tutto il Triveneto e, come spesso accade di conseguenza, in tutto il resto del Paese.

Va poi fatto notare il particolare “feeling” tra il mondo del credito e le organizzazioni criminali. Dai tempi di Maniero, quando il giudice istruttore Francesco Saverio Pavone arrivò a bloccare una filiale di un istituto di credito che da mesi non forniva informazioni su un giro di usura (facendola riaprire solo dopo aver ottenuto le informazioni), al blocco delle operazioni disposto da Banca d’Italia per l’agenzia dell’istituto di Mestre che curava gli affari della ’ndrina Morabito, fino all’arresto del direttore della filiale che ometteva le segnalazioni di operazione sospetta per la camorra casalese dei Donadio tra Eraclea e Jesolo, il cui processo è ancora in corso, il mondo del credito veneto non ha dimostrato alcuna differenza con quello palermitano degli anni Ottanta. La stessa predisposizione a coprire gli affari disonesti dai tempi in cui Attilio Marzollo raccoglieva gli “schei orfani” dei personaggi collusi con la criminalità e delle industrie delle armi senza registrarli.

In questa mappa due dati economici “puri” meritano infine la massima attenzione: nel triennio 2007-2009, tra gli “Indicatori di illegalità economica amministrativa” (numero di reati per abitanti), il Friuli Venezia Giulia risulta al primo posto in Italia alla voce “Reati societari”, il Trentino Alto Adige al secondo posto per i “Reati tributari” seguito al terzo di nuovo dal Friuli Venezia Giulia. Queste regioni sono di nuovo seconda e terza a livello nazionale alla voce “Violazione norme su ritenute previdenziali” .

Una “tradizione” che continua visto che nel 2018 la provincia di Pordenone è al terzo posto in Italia per numero di segnalazioni di operazioni sospette rispetto al numero di abitanti .

Fare uscire dal cono d’ombra queste organizzazioni e i loro affari è quindi il primo passo per riuscire a combattere la criminalità organizzata.

Trovare un tracciato logico in queste mappe è la ragione di questo libro.


 

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