Ecco chi era Donato Bilancia, il serial killer morto di Covid in carcere a Padova

PADOVA. La sua firma era una pistola calibro 38 Smith & Wesson, uccise 17 persone in pochi mesi, dal settembre 1997 all'aprile 1998, fra la Liguria e il Piemonte. Condannato a 13 ergastoli, il serail killer Donato Bilancia è morto giovedì 17 dicembre 2020 nel carcere di Padova, per Covid. Aveva 69 anni.
Lo definirono il killer dei treni, o il killer delle prostitute, per la tipologia scelta per la maggior parte delle sue vittime.
Un'infanzia difficile, il rapporto complicato con i genitori, l'omicidio-suicidio del fratello, la passione compulsiva per il gioco d'azzardo, lo portarono prima a commettere una serie di furti, poi a uccidere.
La scia di sangue l'ha lasciata sui marciapiedi, dove ha freddato le prostitute dopo averle obbligate ad inginocchiarsi davanti a lui, e poi nelle toilette dei treni, dove ha ucciso due giovani donne inermi: Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino.
La caccia al mostro della Liguria, al serial killer che aveva terrorizzato le donne sui treni, tant'è che nell'aprile 1997 erano state chiamate in servizio decine e decine di agenti della Polfer e i passeggeri delle linee Genova-La Spezia-Ventimiglia viaggiarono per un mese in treni blindati, terminò il 6 maggio 1998. Quel giorno i carabinieri lo arrestarono a Genova. Tre le tracce per incastrarlo, i mozziconi di sigaretta lasciati accanto ai cadaveri, una Mercedes e l'identikit tracciato dal transessuale Jorge «Lorena» Castro, sfuggito dalla furia omicida.
Nella sua ultraventennale reclusione al carcere di massima sicurezza Dua Palazzi di Padova Bilancia iniziò un cammino di rieducazione personale che lo portò prima diplomarsi in ragioneria poi a prendere una laurea in Progettazione e gestione del turismo culturale. Partecipò anche a svariate attività all'interno del peniteziario, come i corsi di recitazione. Riprese a suonare la chitarra: "La musica mi aiuta a non morire dentro".
«Il primo periodo» disse esattamente un anno fa alla giornalista del mattino di Padova Elena Livieri, , «è stato il più duro: dodici anni in isolamento. Non potevo uscire, non potevo vedere nessuno, ero solo in una stanza vuota tutto il giorno. Per passare il tempo facevo un po’ di ginnastica». Poi l’isolamento è terminato, ed è iniziato un nuovo percorso. «Frequento tutte le attività e credo che siano davvero utili: possiamo incontrarci, parlare e fraternizzare tra noi, si instaurano delle relazioni. E questo anche con i volontari che vengono qui. Quando ho ricominciato a studiare la professoressa che mi seguiva ha preteso che durante la nostra lezione la porta della mia cella rimanesse aperta. Ci sono voluti tre anni, ma alla fine è stata lei a volerla chiudere. Queste attività ci aiutano a non morire dentro».
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