Ecco perché il Nordest è diventato una terra di mafie

VENEZIA. In Veneto sono attive 430.266 imprese che danno lavoro, fino a questo momento, a 1.730.731 addetti, con una media di poco più di 4 addetti per impresa. In provincia di Bolzano su 44.263 imprese attive quelle con meno di 10 addetti sono 40.778, quasi il 92% del totale.
Benvenuti sulla dorsale Nord Est, quel sistema economico fortemente orientato verso il mercato europeo dove il detto “piccolo è bello” si sta trasformando in “piccolo è fragile”. Solo nel primo trimestre 2020, quando cioè gli effetti del Covid dovevano ancora dispiegarsi, il Veneto ha perso 3.685 aziende.
Una rete che, secondo Cerved, aveva saputo resistere come nessun altro alla crisi del 2008 (rispetto al 2007 in Trentino Alto Adige le imprese sono aumentate del 13,7% con un incremento dei ricavi del 8,1 mentre in Veneto era diminuita dello 0,3 aumentando i ricavi del 2,5) nonostante la stretta creditizia che ha fatto aumentare l’incidenza degli oneri finanziari sul margine operativo lordo del 14,6% in Trentino Alto Adige e del 11,1% in Veneto).
Se questo sistema finanziario “a misura di campanile” scompare per assorbimento e si trova in difficoltà, le prime a risentirne saranno proprio le micro imprese che finora avevano assicurato valore aggiunto diffuso e quindi crescita sociale. In questo sistema improvvisamente azzoppato da due congiunture diverse (crisi finanziaria e pandemia Covid -19) la ricerca di capitale da investire significa, in alcuni casi, sopravvivenza. Il primo allarme era stato lanciato nel 2015 dall’allora presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che da Verona aveva spiegato come le cosche calabresi “avessero imparato il dialetto veneto” spiegando come “In Veneto e nelle altre regioni del Nord Est c’è più omertà che al Sud, con la differenza che al Sud l’omertà si basa sulla paura, al Nord Est è dettata dal reciproco interesse economico”.
In una macro regione in cui fino al 2015 i procedimenti per associazione mafiosa erano più unici che rari, quindi, l’espansione della ’ndrangheta, cioè l’organizzazione criminale che più ha approfittato dell’offensiva dello Stato contro le cosche vincenti di Cosa nostra siciliana, è stata esponenziale. Le indagini e i processi “Aemilia”, “Camaleonte”, “Avvoltoio” (in Veneto) e le ultimissime “Isola Scaligera” (a Verona) e “Freeland” (con arresti tra Bolzano e Trento) mostrano uno spaccato di affari tra imprenditoria e “locali” di ’ndrangheta basato sul meccanismo delle false fatturazioni talmente articolato che ha spinto il procuratore distrettuale antimafia Bruno Cherchi a bocciare la teoria del “bisogno creditizio” o della “ignoranza della controparte” con una domanda che finora non ha trovato risposta: «Scusate, ma cosa bisogna ancora spiegare all’imprenditore veneto che cerca i soldi della mafia o che cerca un mafioso per staccare o ricevere fatture false? Cosa ancora bisogna dirgli? L’imprenditoria veneta sa cos’è la mafia solo che non vuole accorgersene».
Dal punto di vista geografico la direttrice di aggressione del tessuto produttivo è Ovest-Est, dalla roccaforte di Verona dove, secondo le accuse degli inquirenti che attendono il vaglio del tribunale, le famiglie Arena Nicoscia hanno elevato la loro capacità di penetrazione alle aziende pubbliche, ma dove in provincia si è sviluppata anche la più grande “terra di nessuno” dove i carabinieri notano come: “imprenditori e semplici cittadini” si rivolgevano a Domenico Multari per dirimere proprio contenziosi commerciali, ottenere il recupero crediti e addirittura far cacciare un maniaco sessuale. La prova della “commistione” si ha nel processo alla “locale”: solo un imprenditore le cui attività e ricchezze erano state risucchiate dalla cosca che gli aveva prestato i soldi, si è presentato a testimoniare. Gli altri hanno declinato. Al punto che l’operazione “Avvoltoio”, tra Padova e Venezia, è stata decisa dalla Dda proprio per sequestrare agli imprenditori presunti vittime degli ’ndranghetisti i documenti che provavano l’usura e le minacce. Nessuno di loroaveva accettato di darli agli inquirenti.
Come se ne esce? Secondo gli investigatori un sistema è quello di rendere penalmente perseguibile la mancata “Segnalazione di operazione sospetta” da parte della miriade di professionisti che seguono gli affari delle imprese, sia delle “buone” che delle “criminali”. Il secondo è un sistema algoritmico di indicatori di mafiosità tratti dai bilanci, algoritmo che una società veneta sta mettendo a punto in questi giorni: permetterà a istituzioni e grandi aziende legate al sistema degli appalti e subappalti di avere un campanello d’allarme. Resta però un fatto: manca la motivazione della “accoglienza” da parte del sistema produttivo del Nord Est di tante realtà criminali. Potrebbe essere spiegata da Mario Crisci, a capo della società finanziaria “Aspide”, legata ai Casalesi, davanti ai giudici di Padova che gli contestavano usura, percosse, e via dicendo: «Vede, abbiamo scelto di concentrare le nostre attività a Nord Est perché qui il tessuto economico non è così onesto. Anzi, tutt’altro». —
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