Dazi Trump, l’export veneto verso gli Usa vale 7 miliardi

Gli Stati Uniti sono il terzo mercato per il Veneto. Il presidente di ExportUSA: «Trump alza la posta per poi negoziare»

Annalisa Girardi
Allarme in Veneto per i dazi di Trump
Allarme in Veneto per i dazi di Trump

 

Ora che Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca, le imprese europee attendono con il fiato sospeso di vedere se le promesse sui dazi si trasformeranno in realtà. Le aziende del Veneto non fanno eccezione.

Del resto gli Stati Uniti sono il terzo mercato di sbocco per la regione: valgono il 9,3 per cento delle esportazioni, per un valore di 7,6 miliardi totali nel 2023. Nei primi nove mesi del 2024, nonostante un calo rispetto all’anno prima, si sono registrati 5,4 miliardi di esportazioni verso gli Stati Uniti.

E allora la prospettiva di un aumento dei dazi spaventa. Ma c’è anche chi sottolinea come non sia il caso di farsi prendere dal panico.

L’invito di Miranda

«Con Trump bisogna sempre fare attenzione alle cose che dice e alle cose che fa. Prima eravamo in campagna elettorale, quindi la retorica era diversa. Ora ci sono altre necessità. Quando ha firmato gli ordini esecutivi sembrava che dovesse essere il giorno dell’Apocalisse, invece i dazi all’Europa non sono stati aumentati. Ora verrà formata una commissione, per studiare i rapporti commerciali con ogni singolo Paese ed entro 90 giorni verrà stilato un rapporto per capire quali misure prendere», sottolinea Lucio Miranda, presidente di ExportUSA, una società di consulenza che fa da filo conduttore tra le imprese italiane e il mercato statunitense.

La questione, secondo Miranda, però è un’altra: «Trump usa i dazi non tanto per ribilanciare il deficit commerciale, ma come leva per negoziare una serie di concessioni, Paese per Paese. Lo scopo dei dazi è quello di dare origine a dei negoziati bilaterali tra gli Stati Uniti e vari Paesi», spiega.

Questo è quello che starebbe succedendo con Canada e Messico, per cui Trump ha annunciato dazi del 25 per cento: «Inizialmente aveva detto che questo aumento ci sarebbe stato se Canada e Messico non si fossero dati da fare per fermare il contrabbando di fentanyl. Ora pare che voglia obbligare i due Paesi a rinegoziare in anticipo il trattato commerciale del Nord America. In pieno stile trumpiano, ogni giorno che passa si scopre una nuova carta».

L’incertezza pesa sulle imprese

È chiaro che nemmeno tutta questa incertezza giova alle nostre imprese: «Questa è un po’ la wild card di Trump. Però quello americano è il mercato numero uno al mondo, un’azienda italiana non lo può ignorare. Anche perché in alternativa, dove si può andare?», si chiede Miranda.

Una domanda retorica, chiaramente, non ci sono altri mercati altrettanto invitanti.

In parte, quindi, bisognerà far fronte ai nuovi scenari. E bisognerà farlo tenendo conto che gli schemi sono cambiati: «Ci sono alcune classi di autoveicoli su cui si applicano dazi del 2 per cento quando si importa negli Usa, mentre in Italia il dazio è del 10 per cento. Quindi, se ci dovessimo fermare a negoziare sui numeri, avremmo già perso. In una situazione del genere, il punto non è cosa può fare una singola azienda (che può ben poco), ma cosa può fare il Paese, l’Europa, il governo italiano, la Commissione europea: tocca a loro creare delle opzioni nuove, essere creativi e un po’ spregiudicati. Insomma, ci si deve anche adattare a Trump e ai suoi, che rompono le regole e ne applicano di nuove. Che non negoziano come si fa normalmente, bisogna adeguarsi a quello», spiega Miranda.

Insomma, in fase di trattative l’Italia potrebbe riuscire a salvaguardare gli interessi delle sue imprese: «I dazi sono materia europea, ma magari l’Italia potrebbe essere esclusa su alcuni fronti. Potrebbero crearsi dei canali diversi, come è accaduto durante la prima amministrazione Trump, dove ad esempio sull'olio extravergine di oliva sono stati messi dei dazi extra per Francia e Spagna, ma non per l’Italia. O ancora, sulle importazioni di vino da Francia, Spagna e Germania sono stati aumentati i dazi, ma questo non è successo sul vino dall’Italia». Proprio su questo fronte è intervenuto anche l’assessore regionale Federico Caner, che ha sottolineato come i i produttori veneti, ad esempio quelli del Prosecco, dovrebbero comunque farsi trovare pronti per ogni scenario. Ad esempio lavorando per rafforzare i mercati alternativi verso cui poter indirizzare l’export.

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Infine, un’altra ipotesi è che i dazi abbiano l’obiettivo di attrarre sempre più imprese a produrre negli Stati Uniti, in modo da beneficiare della misura. «Noi abbiamo due fabbriche negli Usa, diversi anni fa abbiamo deciso di localizzare la nostra produzione lì, i dazi potrebbero anche portarci dei vantaggi. Perché alcune materie prime che venivano importate dal Messico o dall’Asia non sarebbero più così competitive», racconta Massimo Pavin, presidente e amministratore delegato di Sirmax, azienda di Cittadella che produce materie plastiche e che si è espansa in tutto il mondo. «Una politica di dazi potrebbe favorirci come azienda localizzata. Noi abbiamo deciso di internazionalizzare, dobbiamo essere vicini ai nostri clienti e siamo praticamente ovunque nel mondo, dagli Stati Uniti alla Polonia, dal Brasile all’India».

La produzione negli States

Il tentativo di portare sempre più aziende a produrre negli Stati Uniti è cominciato prima di Trump, spiega Pavin: «Noi siamo stati oggetto di un programma di incentivi partito con Obama e proseguito con Trump e Biden, che si chiama “Back to manufacturing”. Gli Stati Uniti si sono accorti che avendo portato tanta manifattura in Asia avevano finito con il disintegrare la propria, e con lei la classe media. Per cui è stato lanciato un intensivo programma di reshoring, che però non punta solo a riportare a casa le loro aziende, ma anche ad attrarne di nuove. Trump, nel suo mandato precedente, era stato molto generoso con gli incentivi», conclude Pavin. —

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