Fine vita, la sorella di Stefano Gheller: «Serve un regolamento subito»

Cristina Gheller: «Ai politici contrari dico di trascorrere una giornata con chi ha chiesto il suicidio, cambierebbero idea»

Laura Berlinghieri
Cristina Gheller con il fratello Stefano
Cristina Gheller con il fratello Stefano

Cristina Gheller, suo fratello Stefano è stato un volto della battaglia per il fine vita. Come ha elaborato la decisione di chiedere il suicidio medicalmente assistito?

«Mi aveva parlato della Svizzera, ma io non pensavo che facesse sul serio. E invece poi si è informato davvero, ha persino chiesto un preventivo a una clinica. Poi ha conosciuto i volontari dell’associazione Luca Coscioni e gli si è aperto un mondo. Ha scoperto che poteva chiedere di morire qui, in Italia. La sua domanda è stata accolta in tre settimane, anche se poi non ha proceduto con il suicidio assistito, ma non ha mai smesso di combattere per i malati meno “fortunati” di lui».

Il Veneto avrebbe potuto essere la prima regione italiana a dotarsi di una legge per il fine vita, ma quella proposta è stata affossata dal Consiglio regionale. Che ricordo ha di quei giorni?

«Di una delusione enorme».

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Stefano Gheller con i volontari dell’associazione Coscioni

Sul fine vita, la politica è spaccata, mentre il pensiero della gente non appare polarizzato, a seconda del credo politico. La società è più avanti dei partiti?

«Questo è sicuro. L’associazione Coscioni ha raccolto una marea di firme nelle piazze di moltissime città: significa che sono le persone a chiedere che ognuno sia libero di scegliere per la propria vita. Ai politici io dico sempre che dovrebbero trascorrere una giornata con le persone che sopportano queste sofferenze inaudite. Non dico un mese, né una settimana: basterebbe un solo giorno al loro fianco, occhi negli occhi, e io sono sicura che cambierebbero idea. Se fosse un loro familiare a vivere questa situazione, la penserebbero in un altro modo».

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Perché la politica dice no?

«Perché chi decide non riesce a immedesimarsi negli altri. Ci sono malati che attendono otto mesi, persino un anno, prima di avere risposta. Ma i politici non riescono a capire che, per persone che hanno una malattia invalidante, grave, che provoca dolori enormi, quotidiani, e per le quali svegliarsi al mattino o arrivare a sera è un traguardo: ecco, per queste persone anche soltanto due settimane sono troppe».

Il presidente Luca Zaia ha promesso un regolamento sul fine vita, da diffondere alle aziende sanitarie. Cosa vorrebbe dirgli?

«Di farlo e di farlo al più presto. Il Veneto ha perso l’occasione per diventare la prima Regione con una legge sul fine vita: pazienza, potremo diventare la prima Regione con un regolamento. E mi rivolgo anche al Parlamento, perché questa inerzia è inammissibile e inspiegabile. Serve una legge, per dare alle persone che patiscono sofferenze indicibili la possibilità di morire a casa propria. Quantomeno questo, in una situazione che è di per sé di dolore enorme».

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Detto che il fine vita è disciplinato soltanto da due sentenze della Corte Costituzionale, qual è la componente che secondo lei manca a questa regolamentazione?

«Prima di tutto, la determinazione di tempi certi. In Italia, la sola strada percorribile è quella del suicidio medicalmente assistito: significa che il malato deve somministrarsi autonomamente il farmaco letale. E questa è una ulteriore fonte di preoccupazione per i malati che attendono una risposta per mesi, mentre la loro malattia avanza, parallelamente al rischio che questi, un domani, non siano nemmeno più capaci di premere il pulsante per iniettarsi il farmaco».

Perché suo fratello aveva chiesto la possibilità di scegliere quando morire?

«Perché aveva visto nostra madre, allettata per vent’anni con la tracheotomia, e aveva capito che non avrebbe mai voluto trascorrere così la sua vita. Perché questa non è vita. Anche lei, come Stefano, viveva attaccata a un ventilatore, 24 ore su 24, e aveva pure l’ossigeno. Negli ultimi tempi, Stefano faceva fatica anche soltanto a mangiare. La malattia stava peggiorando velocemente».

Quanto incide la Chiesa in questo immobilismo legislativo, secondo lei?

«Secondo me, tanto. I contrari al fine vita sostengono che bisogni morire solo in maniera naturale, anche soffrendo, ma per me è un pensiero inconcepibile. Forse temono di aprire la strada alla liberalizzazione incontrollata del suicidio, ma per ottenere il fine vita sono necessari requisiti stringenti. Nessuno, tra i malati, vorrebbe fare quella fine. Ma se una persona arriva a prendere una decisione tanto importante e coraggiosa – perché ci vuole coraggio a fare questo passo – allora vuol dire che è arrivata al limite. Che non può vivere oltre». —

 

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