Il bambino che non riusciva a dormire: il racconto di Tiziano Scarpa

“Il bambino che non riusciva a dormire” è la storia di Veronico che Tiziano Scarpa ha scritto per la “Stagione sul sofà” dello Stabile del Veneto, arricchita dai disegni di Massimo Giacon che i bambini possono anche scaricare dal sito del teatro, e colorare.
Tiziano Scarpa, veneziano, è scrittore, poeta e drammaturgo; con “Stabat Mater” ha vinto nel 2009 il Premio Strega e il Premio SuperMondello. Massimo Giacon, padovano, è fumettista, illustratore, designer, artista e musicista.

Prima parte
DISOBBEDIENZA NOTTURNA
C’era una volta un bambino che non riusciva a dormire. Aveva otto anni, e si chiamava Veronico. Sì, proprio Veronico.
Chissà perché la mamma e il papà mi hanno chiamato così, si chiedeva. Non lo aveva mai capito. E non aveva il coraggio di domandarglielo: non voleva che pensassero che il suo nome non gli piaceva.
Sembrava che ci tenessero tantissimo, a quel nome: quando lo pronunciavano, “Veronico…”, lo facevano con una tenerezza speciale.
Ma per lui non era per niente facile portare un nome così diverso da tutti gli altri.
A scuola c’erano dei bambini che lo prendevano in giro. In particolare, uno di loro si sentiva in diritto di farlo solo perché aveva un nome molto comune: si chiamava Marco; Marco Sandroni. Ci provava gusto a tormentarlo sempre. Lo chiamava con un certo tono: “Veronico… Veronico… Cretino supersonico!”
Ma Veronico non reagiva, per non dargli soddisfazione.
Allora Marco Sandroni insisteva, gli diceva cose sempre più offensive, per provocarlo; faceva rimare il suo nome con delle parolacce che non mi va di ripetere.
Veronico faceva finta di niente, lo ignorava.
Visto che le sue battutacce non facevano effetto, Marco Sandroni non si accontentò più delle offese; dalle parole passò ai fatti. Eh, purtroppo sì. Contro Veronico fece delle cose brutte, che adesso non ho voglia di raccontare, perché solo a pensarci mi fanno venire una rabbia! Immaginatele voi. Diciamo che erano un po’ più di un pizzicotto, e un po’ meno di uno sgambetto; ma certe volte provocavano dei guai piuttosto seri. Veronico tornava a casa da scuola con qualche livido, a volte anche con una piccola ferita, una sbucciatura, un taglietto.
“Che cos’è successo?” gli domandava la mamma. “Cosa ti sei fatto qui?”
“Niente, sono scivolato giocando”, le rispondeva Veronico. Oppure: “Non ho visto uno spigolo e sono andato a sbatterci, ma non mi fa male”. Non diceva come erano andate veramente le cose, perché era un bambino orgoglioso e voleva risolvere i suoi problemi da solo, senza farsi aiutare dai grandi. Eh, lo so che sbagliava, ma questo era il suo carattere; e d’altronde, pensateci: se avesse detto la verità ai suoi genitori e anche alla maestra, tutto si sarebbe risolto, questa storia non sarebbe andata com’è andata, e io non sarei qui a raccontarvela.
Ad ogni modo, il problema del nome e delle offese e degli scherzi pesanti non era niente al confronto di quell’altro.
Come, “quale altro problema”?
Ve l’ho detto all’inizio! Ho detto che c’era una volta un bambino che non riusciva a dormire. Be’, questo bambino era lui, Veronico. Ma il problema riguardava soprattutto i suoi genitori: più che altro la mamma.
Statemi bene a sentire.
Ogni sera la mamma veniva nella sua stanza e gli leggeva una favola. Niente da fare, Veronico non si addormentava: né con le favole belle, né con quelle brutte; né con le favole appassionanti, né con quelle noiose. Sì, perché anche le favole noiose sono molto utili: fanno dormire! Ma non nel caso di Veronico. La mamma le aveva provate tutte. Non c’era verso. Chi prendeva sonno semmai era lei, che era molto stanca perché aveva lavorato tutto il giorno, e mentre leggeva le si chiudevano gli occhi.
A volte, dalla stanchezza, le venivano le traveggole, le capitava di leggere fischi per fiaschi. Proprio così: nel libro di favole c’era scritto “fischio” e lei leggeva: “fiasco”. C’era scritto “caro” e lei leggeva: “curo”. C’era scritto “capo” e lei leggeva: “cupo”. C’era scritto “calo” e lei leggeva…
Non leggeva più. Gli occhi le si chiudevano, la testa le ricadeva sul petto, ma lei cercava di resistere e per un po’ continuava a bisbigliare, andava avanti lo stesso, come un barattolo che rotola, senza rendersi conto di quello che diceva: “C’era una volta un paese pasìno pìspolo nìspolo pisopìno psss…” Povera mamma! Com’era stanca! Si metteva a dormire così, seduta sulla sponda del letto, con il libro di favole aperto sulle ginocchia.
Ogni mattina, la mamma si svegliava sempre molto intontita, perché aveva dormito troppo poco, e gli preparava la colazione ancora mezzo addormentata. Il caffelatte era salato. Come mai? Eh be’, la mamma non si era accorta che non aveva preso la zuccheriera ma il barattolo vicino, quello del sale. Altre volte le fette biscottate, al posto della marmellata erano spalmate di senape. Una mattina la mamma voleva fargli la spremuta di arance. Provava e riprovava ad affondare il coltello nella buccia per tagliarne una a metà, ma non c’era modo di riuscirci: “Com’è dura questa arancia”, disse la mamma. “Andrò dal fruttivendolo che me l’ha venduta, a protestare”.
“Ma, mamma, non è un’arancia: è una pallina da tennis!”
Il papà non poteva farci nulla, perché a quell’ora era già andato a lavorare; si svegliava sempre due ore prima di loro.
Veronico capì che se alla mattina la mamma era così imbambolata dal sonno, la colpa era sua. Bisognava rimediare.
Quella sera stessa, lei entrò come sempre nella sua stanza a leggergli una favola. Non era ancora arrivata a metà, che, incredibile, Veronico cominciò a sbadigliare. Dopo un po’ gli occhi gli si chiusero. Dopo un altro po’ il respiro gli si fece pesante.
Sta dormendo, pensò la mamma. Finalmente! Non le pareva vero. Facendo più piano che poteva, si alzò dalla sponda del letto di Veronico, spense la luce e in punta di piedi uscì dalla stanza.
Veronico però era sveglissimo. Aveva fatto finta di addormentarsi solo per farle piacere. Teneva gli occhi aperti nel buio, e pensava. Per la verità, faceva così ogni notte. Aveva sempre fatto così. Passava le ore in quel modo, tenendo gli occhi aperti nel buio e pensando. Per lui era normale trascorrere le notti da sveglio. Stava lì fermo, dove la mamma voleva che stesse. Era un bambino obbediente. Riposava disteso sotto le coperte. Ma non dormiva. Che cosa faceva? Ripensava alle cose che gli erano successe di giorno, agli scherzi molto cattivi che gli aveva fatto Marco Sandroni, e anche a quelli ancora più cattivi che gli avrebbe fatto il giorno dopo. Ma per la maggior parte del tempo si inventava delle storie, per continuare le favole che gli aveva letto la mamma. Quella notte però gli passò per la testa qualcosa di diverso.
Stasera ho fatto finta di dormire per fare contenta la mamma, pensò. Adesso lei finalmente potrà riposarsi bene. Sono stato bravo. Ma siccome ho obbedito a una cosa in più che lei non mi aveva chiesto, allora posso fare a meno di obbedire a una cosa che scelgo io. Vediamo, cosa potrebbe essere? Ecco, sì: non ho più voglia di passare tutta la notte qui fermo sotto le coperte!
Fu così che, per la prima volta, Veronico si alzò dal letto, e andò a vedere com’era fatta la notte fuori della sua stanza.
Seconda parte
I SOGNI DEGLI ALTRI
Uscito dalla sua camera, Veronico si mise a camminare nelle stanze buie della casa. Per la verità, in casa il buio non era totale. C’era una specie di penombra, una sfumatura di luce debole. Quel chiarore appena accennato non stava fermo. Si spostava e cambiava di intensità, anche se in maniera quasi impercettibile. Era come una nebbiolina rosa, che in certe stanze si stendeva sul pavimento, in altre si concentrava sui davanzali delle finestre, con una linea sottile e tenue.
Saranno i fari delle automobili che passano, si disse Veronico, pensando che fossero le loro luci a lambire le finestre di casa, anche se fuori non si sentiva risuonare nessun motore.
Passo dopo passo, si avvicinò alla camera dei suoi genitori. Accostò l’orecchio alla porta. Sentì il loro respiro pesante. Russavano tutti e due. La porta era socchiusa; la spinse leggermente. Anche nella stanza dei genitori ritrovò quel chiarore leggero, sfumato, che colorava di rosa l’aria scura. A Veronico sembrò che quella luce si fosse tirata indietro, quando lui aveva aperto un po’ la porta, come se fosse stata colta di sorpresa e non volesse farsi scoprire.
Nella penombra intravide due sagome distese a letto. Eh sì, la mamma e il papà dormivano profondamente.
Adesso vi avverto che devo spiegarvi un paio di cose, se no poi la storia non si capisce. Perciò, mentre io vi spiego, lascerò in piedi Veronico per un po’, lì, sulla soglia della camera dei suoi genitori, mentre li guarda dormire e prende una decisione molto importante, che farà succedere prima un incidente, e poi… Ve lo dico dopo, promesso. Ma voi avvertitemi, non vorrei dimenticarmi di lui. Fate così: mettete un timer, come quando si deve calcolare il tempo che ci vuole per cuocere un uovo sodo. A me basterà molto meno. Facciamo… tre; no: quattro minuti. Quando scadono avvertitemi però! Siamo d’accordo? Bene. Avete messo il timer? No? Forza. Allora, fatelo partire al mio via. Conto fino a tre: Uno, due, tre… Via!
Veronico non capiva bene che cosa significasse quella cosa: dormire. Perché le persone a un certo punto della giornata, di solito verso sera tardi, chiudevano gli occhi e non si muovevano più? Anche lui si riposava disteso a letto. Ma mica dormiva! Riposarsi era un conto, spegnere l’interruttore della testa e smettere di pensare, un altro. E invece facevano tutti così. Sprecavano un sacco di ore rimanendo spenti, come una radio o un computer senza corrente elettrica.
Per la verità, qualcosa nelle loro teste succedeva: una specie di film personale, come dei video che potevano vedere solo loro. Ogni persona che dormiva era la protagonista di un’avventura fatta apposta per lei. E quelle avventure avevano un nome: si chiamavano sogni.
A Veronico dispiaceva molto di non poter sognare. Non sapeva proprio che cosa fosse un sogno. Com’era fatto? Che cosa si provava? Avrebbe tanto voluto vivere quell’esperienza. Ma come fare, se era un bambino che non dormiva mai?
A scuola c’era una bambina molto amica di Marco Sandroni. Gli assomigliava anche un po’: come lui era spavalda, trattava male tutti. Un giorno però Veronico si fece coraggio, andò da lei e le disse: “Mi racconteresti che cosa hai sognato stanotte?”
“Perché me lo chiedi?”, gli disse lei.
“Perché ho bisogno di ascoltare i sogni degli altri, e i tuoi devono essere speciali”.
La bambina non se l’aspettava, e invece di rispondergli male, come faceva sempre con tutti, gli raccontò il sogno che aveva fatto quella notte.
Ho dimenticato di dire che si chiamava Sabrina. Da quel giorno Sabrina e Veronico cominciarono a conoscersi. Ma anche questo a Veronico creò un altro grosso problema.
Non solo fa finta che io non esista. Adesso mi ruba anche le amiche!
Avete capito chi era che aveva pensato questo? Eh certo! Proprio Marco Sandroni.
Sabrina, ve l’ho già detto, era molto amica di Marco Sandroni, ma a poco a poco diventò amica anche di Veronico. Questa fu un’altra cosa che Veronico pagò molto cura, volevo dire, pagò molto cara, perché Marco Sandroni si arrabbiò tantissimo; era geloso della nuova amicizia fra loro due. Passò a fargli scherzi ancora più pesanti e più dolorosi. Gli metterò una puntina sulla sedia, così si punzecchia il calo, volevo dire il…

Che cos’è questo squillo? Mi sembrava di averlo spento, il telefono. Hanno suonato alla porta? A quest’ora? Ma è vietato fare visite, non lo sanno? Ah, sì, giusto! Grazie di avermi avvertito.
In effetti, Veronico è lì che aspetta che io torni da lui a raccontare la prima notte che passò fuori dal suo letto. Non ne potrà più di stare fermo impalato ad aspettarmi, mentre io perdo tempo a cianciare. Arrivo, arrivo!
Ecco cosa stava succedendo.
Staranno sognando, pensò Veronico riaccostando la porta della camera dei suoi genitori. Poi decise di fare una cosa. Tornò nella sua stanza, e invece di stendersi di nuovo a letto, si vestì. Si mise le calze, i pantaloni, una maglia, il giubbotto e un berretto di lana in testa. Le scarpe per il momento non le indossò, le prese in mano, camminò con le calze ai piedi, per non fare rumore; si infilò le scarpe solo quando fu arrivato alla porta d’ingresso. Le chiavi erano appese lì vicino: le prese, se le mise in tasca e uscì di casa.
Terza parte
L’ESPLORATORE DELLA NOTTE
Fuori era notte fonda. Intorno alla sua casa c’era un piccolo giardino, chiuso dentro un recinto che lo separava dalla strada. C’era un po’ di vento. Giganti neri si muovevano sullo sfondo capo del cielo, volevo dire, sullo sfondo cupo del cielo. Erano alberi. Le loro sagome nere oscillavano da una parte e dall’altra. Il vento in certi momenti soffiava più forte, e passando attraverso le foglie faceva una specie di fiasco: volevo dire, una specie di fischio. Ma quelle sagome scure, che ondeggiavano sibilando, a Veronico non fecero nessuna impressione. Era abituato a cose molto più spaventose, perché era un bambino che sapeva stare da solo con i suoi pensieri per tutta la notte, a immaginare storie piene di mostri e compagni di classe ancora più cattivi di quelli veri.
Lì fuori, da solo nel cuore della notte, Veronico si sentiva a casa sua: più ancora che dentro la sua stanza. Si mise a camminare intorno ai muri della casa, sul praticello del piccolo giardino. I fiori delle piante erano chiusi.
Dormono anche loro!, pensò Veronico.
Ebbe l’impressione che da dietro l’angolo della casa spuntasse un chiarore rosa, una luce molto debole, come quella che aveva già visto dentro le stanze. Si avvicinò, accelerando il passo per controllare, svoltò dietro l’angolo: niente. Guardò davanti a sé. Eccolo di nuovo: il chiarore, molto delicato, si era spostato più in là, era come un orlo che si irradiava dall’altro angolo. Allora Veronico si mise a correre per raggiungerlo. Ma anche questa volta, quando arrivò allo spigolo del muro di casa e girò dietro l’angolo, non trovò più niente. Continuò così per un po’, a rincorrere quel chiarore, fece tre volte il giro della casa.
Sono io che ho le traveggole?, pensò. È la prima volta che esco di casa di notte da solo, non sono abituato a correre a quest’ora: me ne stavo sempre disteso a riposare. Forse è meglio non esagerare.
Per quella notte poteva bastare così. Rientrò a casa, si svestì e tornò a letto.
La mattina dopo andò a scuola, si fece raccontare un sogno da Sabrina, subì le angherie di Marco Sandroni, e tornò a casa con un livido in più, questa volta sul gomito.
Di sera, dopo cena, la mamma gli lesse un’altra favola. Non credeva ai suoi occhi: anche questa volta Veronico prendeva sonno! Le favole della buonanotte funzionavano!
Avete già capito che non era affatto così: Veronico aveva fatto finta un’altra volta di dormire. Rimase disteso al buio per qualche ora, e poi, nel cuore della notte, uscì di nuovo fuori di casa. Questa volta, oltre alle chiavi, prese con sé anche una piccola torcia elettrica, perché voleva uscire anche dal cancello, a esplorare la strada. Lo aprì con molta attenzione, per non farlo cigolare. Quando si girò per richiuderlo piano, guardando il giardino, ecco un’altra volta l’alone di luce rosa: se ne stava dietro un cespuglio; un cespuglio che era proprio di rose. I boccioli erano chiusi, e sembrava che il colore dei petali si fosse sciolto in una nebbiolina luminosa leggerissima che li contornava. Veronico si stropicciò gli occhi per guardare meglio, ma quando tolse le dita dal viso, la nebbiolina rosa era svanita.
Che cos’era?, si domandò cominciando a camminare sul marciapiede della strada, la stessa luce di ieri notte? Ma i suoi pensieri furono interrotti da quello che vide. Per terra c’era qualcosa che non aveva forma. Veronico si avvicinò. Sembrava un mucchio di robaccia.
Chi è che getta l’immondizia per terra, si chiese, proprio sul muretto davanti a casa nostra? Tirò fuori dalla tasca la sua piccola torcia elettrica, la accese, puntò la luce su quella robaccia: non era immondizia, ma un mucchio di stracci. Si chinò per toccarne uno, ma di colpo il mucchio di stracci si mosse e lo attaccò. Veronico fece un salto all’indietro. Uno straccio si era ingrandito, come gonfiandosi di colpo, e gli stava abbaiando contro.
“Basta, Mischione! Falla finita!”
Chi è che aveva parlato? La voce era uscita da sotto il mucchio di stracci.
Veronico puntò la sua piccola torcia elettrica. Vide due musi pelosi che spuntavano da sotto gli stracci. Erano quasi uguali, si faceva fatica a distinguerli. Solo quando uno dei due musi parlò, Veronico capì che era un uomo.
“Chi sei? Perché vieni qui a disturbarmi?”, disse l’uomo da sotto il suo straccio, che teneva sollevato con le mani ai lati della testa. Aveva una barba lunga e grigia, che gli copriva le guance fin quasi sotto gli occhi, i capelli arruffati e un ciuffo di peli in ogni orecchio.
“Abito qui…” disse Veronico. “Non avevo voglia di stare a letto, e sono uscito a fare un giro”.
“E i tuoi genitori, non dicono niente?”
“I miei genitori non lo sanno.”
“Male! Non si esce da soli nella notte.”
“Be’, tu lo fai.”
“Che c’entra. Io sono grande, tu sei piccolo. Come ti chiami?”
Veronico si presentò.
“Mi prendi in giro?” disse l’uomo.
“Eh, me lo immaginavo che me lo avresti detto. Ma Veronico è proprio il mio nome. D’altronde, anche il tuo cane ha un nome buffo”.
“Cane? Quale cane?” disse l’uomo, togliendosi lo straccio dalla testa.
“Non è un cane?”, si stupì Veronico.
“Ah, Mischione!” disse l’uomo. “C’è ben poco di cagnesco, in lui. Mi sa che questa bestia è il risultato dell’amore universale!”
“Che cosa vuoi dire?”, gli domandò Veronico.
“Ma niente: i suoi genitori, ma anche i suoi nonni se è per quello, e i suoi bisnonni e tutti i suoi antenati, erano un po’ volpini, un po’ suini, un po’ leprotti, un po’ bassotti, un po’ bracchetti, un po’ furetti…”
“Uof”, disse Mischione approvando.
“Insomma, è un gran bastardone”, disse l’uomo.
“Però sa fare bene la guardia”, disse Veronico.
“Non ce n’è bisogno. Io vengo apposta a dormire qui. Questo sarebbe un quartiere tranquillo, se non ci fossero i disturbatori come te”.
“Stavi dormendo?”
“Secondo te?”
“Mi dispiace averti svegliato. Ma… sognavi?”
“Eh?”
“Ti ho chiesto se stavi sognando”.
“E a te cosa interessa?”
“Mi piace ascoltare i sogni degli altri”.
“Stavo…” L’uomo si mise a sedere, appoggiando la schiena al muretto, e cominciò a raccontare. “Ero… come in una città straniera. Arrivava un poliziotto, e io scappavo, ma lui mi gridava dietro che mi dovevo fermare, perché mi avevano proclamato re di quella città…”
“E poi?”
“E poi…” L’uomo continuò a raccontare.
Veronico si sedette a terra accanto a lui, sul marciapiede, ad ascoltare il suo sogno. Era molto sconclusionato, come tutti i sogni, d’altronde. Ma a Veronico piacque molto.
“Chissà se i sogni che si fanno all’aperto sono diversi da quelli al chiuso”, commentò.
“Be’, potresti provare anche tu”, gli disse l’uomo. “Ma non per la strada. Al massimo nel giardino di casa.”
Veronico non gli confessò che lui non poteva sognare, perché la notte non dormiva. “Va bene, prima o poi ci proverò”, si limitò a dire.
“Su, adesso torna a casa e rimettiti a letto.”
Veronico si alzò in piedi: “Però, tu non mi hai ancora detto come ti chiami,” disse.
“Io? Barbone”.
“Ma come? Barbone non è un nome.”
“Il mio vecchio nome me lo sono dimenticato. E d’altronde nessuno me lo chiede più. Mi chiamano tutti così: ‘Barbone, va’ a dare fastidio da un’altra parte’, ‘Barbone, porta via quel bastardo pidocchioso!’”
“Uof”, commentò il cane Mischione.
“Così ho deciso che questo era il mio nuovo nome di battesimo, visto che a tutti sta bene così”.
“Allora buonanotte, Barbone, arrivederci”, disse Veronico cominciando ad allontanarsi.
“Uof”, sentì dire alle sue spalle.
“Uh, sì, scusami! Buonanotte anche a te, Mischione”.
Veronico aprì pianissimo il cancello, poi il portone d’ingresso e rientrò in casa.
Disteso a letto, passò il resto della notte a pensare a Barbone e al sogno che gli aveva raccontato, cercando di immaginarselo meglio che poteva. Immaginò tutti i dettagli: Barbone che diventava re di quella città straniera e la governava seduto su un trono di stracci. E pensò anche al cane Mischione.
La giornata dopo passò come sempre. Veronico uscì di casa per andare a scuola, ma prima di allontanarsi controllò il marciapiede della sua strada; vide che era vuoto.
Si vede che di giorno Barbone si sposta da qualche altra parte, pensò. In classe, nell’intervallo chiacchierò con Sabrina e subì gli scherzacci di Marco Sandroni. Poi tornò a casa, fece i compiti. Quel pomeriggio andò anche in piscina, e in un supermercato lì vicino fece una cosa di nascosto. La sera, a letto, finse ancora una volta di addormentarsi. Aspettò fino a tardi, e quando fu notte fonda si alzò, si vestì, e attraversò la casa immersa nell’oscurità.
Quarta parte
MISSIONE PUNITIVA
Veronico ormai si trovava a suo agio a muoversi nel buio. C’era sempre un delicato chiarore rosaceo, che, col passare delle notti sembrava che volesse sempre di più giocare a nascondino con lui, quando Veronico cercava di raggiungerlo, ma intanto gli rischiarava un po’ il percorso, in modo che non inciampasse mai in qualche ostacolo, rischiando di fare rumore e svegliare i suoi genitori.
Quella notte, Veronico uscì dalla porta d’ingresso, arrivò al cancello, lo aprì. Camminò per pochi metri sul marciapiede fuori casa. Il mucchio di stracci era di nuovo lì.
Mischione lo sentì arrivare, il suo muso spuntò fuori da sotto uno straccio. Ma questa volta non gli abbaiò contro. “Uof”, lo salutò.
Si svegliò anche Barbone. “Ah, sei tu”, gli disse.
“Ti ho portato una cosa”, gli disse Veronico.
“Che cosa?”
“Un pacco di biscotti.”
“Non dovevi. Non posso accettare.”
“Perché no? Sei un senzatetto”.
“Non proprio”
“Come no? Se stai qui…”
“Non sono soltanto un senzatetto. Sono anche un senzamuri, un senzasedia, un senzadoccia, un senzacaffettiera, un…”
“Appunto”, disse Veronico porgendogli i biscotti. “Accettali”.
“Li hai rubati a casa?”
“No, li ho comprati oggi, con i soldi della mia paghetta”, protestò Veronico. “E questo è per Mischione”, aggiunse, tirando fuori una scatoletta.
“Cibo per cani!” disse Barbone. “Bah… grazie.”
“Uof”, disse Mischione scodinzolando.
“Speriamo che non gli vada di traverso,” commentò Barbone.
“Perché?”
“Non è abituato a mangiare di queste prelibatezze, eh eh!”, ridacchiò. Poi disse: “E io?”
“Tu cosa? Ti ho già…”
“Non ho niente da darti in cambio”.
“Come no”, disse Veronico. “Raccontami che cosa stavi sognando”.
“Forse dopo. Piuttosto, dimmi tu qualcosa di te.”
Veronico si sedette accanto a Barbone, e cominciò a raccontargli le sue giornate. Gli parlò della scuola, dei suoi compagni di classe, di Sabrina, e senza volerlo finì a parlare anche di Marco Sandroni, e degli scherzi cattivi che subiva da lui. Era la prima volta che ne parlava con qualcuno.
Barbone si indignò: “Ma come si permette!”, disse, e anche Mischione abbaiò due volte. “E tu, tu non reagisci? Non puoi sempre prenderle.”
“Ma non è che proprio mi picchia”, disse Veronico.
“Però hai detto che ti fa male. E in più ti offende e ti umilia.”
Parlarono un po’ del comportamento di Marco Sandroni, e alla fine Barbone disse: “Non si può andare avanti così. Bisogna dargli una lezione.”
“Che lezione?”, disse Veronico.
“Ascoltami bene”, disse Barbone, e si mise a esporgli un suo piano.
Veronico lo ascoltò, e alla fine gli disse: “Sei sicuro che sia la cosa giusta da fare?”
“Ma certo! Fa’ come ti dico e vedrai”.
Nei giorni successivi, Veronico seguì le istruzioni di Barbone. Fece una piccola inchiesta. Chiese a Sabrina dove abitasse Marco Sandroni. Lei lo sapeva bene, perché andava spesso a casa sua a fare i compiti insieme a lui.
Marco Sandroni abitava non troppo distante da Veronico. Stava al piano terra di una casa molto simile alla sua. Anche lì c’era un piccolo giardino circondato da un muretto basso e un recinto di sbarre.
Ogni notte, oltre a raccontargli i sogni che faceva, Barbone gli parlava del piano che aveva escogitato per punire Marco Sandroni, migliorando sempre qualche dettaglio. Il piano era questo: Barbone e Veronico sarebbero andati fino alla casa di Marco Sandroni, a notte fonda. Barbone avrebbe scavalcato il recinto di metallo che la circondava, si sarebbe avvicinato alla finestra di Marco Sandroni e avrebbe bussato sul vetro, nel buio più assoluto, per svegliarlo. Poi, accendendo la torcia elettrica di Veronico per illuminarsi la testa, avrebbe fatto una smorfia terrificante:
“Così!!”, disse Barbone deformandosi tutta la faccia.
Veronico fece un salto all’indietro, e Mischione uggiolò pieno di paura, nascondendo il muso sotto gli stracci.
“Mi hai fatto prendere uno spavento!”, disse Veronico.
“Ma lo farò prendere molto di più a lui! E mi sa che tornerò alla sua finestra più di una volta, sempre a notte fonda. Diventerò il suo incubo!”, disse Barbone, tutto soddisfatto. “Così impara a maltrattarti”.
Veronico aveva molti dubbi su questo piano, ma non voleva contraddire il suo amico notturno. Barbone era così convinto che fosse giusto vendicarsi. Lui invece pensava che il modo di far capire a Marco Sandroni che sbagliava dovesse essere un altro. Ma non sapeva quale!
In quelle mattine, a scuola, sperò che il comportamento di Marco Sandroni cambiasse, per poter dire a Barbone che era migliorato, e che non c’era più bisogno di vendicarsi. Ma Marco Sandroni non migliorò. Anzi, gli faceva cose sempre più odiose.
Perciò Veronico accettò di essere complice della spedizione punitiva di Barbone.
Arrivò la notte della vendetta.
Veronico si alzò dal letto come al solito e si vestì al buio. Questa volta però si mise una tuta sotto il giubbotto, con un cappuccio che gli coprisse la testa, e si avvolse una sciarpetta intorno alla faccia, per nascondersi. Attraversò le stanze immerse nell’oscurità. Ma dopo pochi passi inciampò in uno sgabello. Per poco non l’aveva rovesciato, e non era caduto per terra lui stesso.
Trattenne il respiro, tese l’orecchio, rimase fermo immobile.
Che cosa sarebbe successo se la mamma e il papà si fossero svegliati? Lo avrebbero trovato in piedi, vestito come un ladro, con il cappuccio sulla testa, la sciarpa intorno alla faccia e le scarpe in mano. Che cosa avrebbe potuto dire per giustificarsi? Che scusa avrebbe dovuto inventare? Aspettò un minuto, due, tre, senza muoversi, con il cuore in gola.
Non successe nulla.
La mamma e il papà dormivano profondamente. Lavoravano così tanto durante il giorno, che la sera erano stanchissimi, e crollavano di schianto.
Per fortuna era andata bene, non lo avevano sentito.
Riprese a camminare, con molta più cautela, ma si rese conto che in casa c’era qualcosa di diverso rispetto al solito. Il buio era più fitto. Non c’era più quel chiarore rosa che nelle altre notti illuminava delicatamente i suoi passi.
Ecco perché sono inciampato, pensò. È tutto molto più scuro! Come mai? Dov’è finita la luce rosa che mi accompagnava sempre? Perché mi ha lasciato solo?
Uscì di casa, uscì anche dal cancello. Raggiunse il mucchio di stracci addossato al muretto di casa.
Il mucchio si gonfiò, da terra sbucò fuori una faccia orrenda.
“Aaaah!”, Veronico si lasciò sfuggire un grido, rimase pietrificato dallo spavento.
“Bene, vedo che funziona!” disse Barbone, rilassando la sua smorfia da mostro e mettendosi a ridacchiare. “Siamo pronti per la nostra missione. Forza!”
Barbone, Veronico e il cane Mischione si avviarono verso la casa di Marco Sandroni.
Camminarono un po’, ma dopo pochi minuti, Barbone si fermò.
“Cosa c’è?”, disse Veronico.
“C’è che siamo arrivati”.
“Ma come, di già?”
“Certo, è l’indirizzo che mi hai dato tu”.
“Sei sicuro?”
“Sono passato qui tante di quelle volte, in questi giorni, per controllare.”
“Hai fatto degli appostamenti!”
“Certamente”, ridacchiò Barbone. “Sono un giustiziere professionista, cosa credi. Ho visto Marco Sandroni entrare e uscire di casa. E ho visto anche qual è la finestra della sua camera”.
“Come si fa entrare nel giardino?”
“C’è una parte del recinto difettosa, mancano due spuntoni in alto. Lì si può scavalcare senza farsi male”.
Raggiunsero quella parte del recinto. Barbone sollevò una gamba, appoggiò un piede sul muretto basso, e afferrando le sbarre con tutte e due le mani prese lo slancio, si arrampicò sul recinto e lo scavalcò. In un istante era già dall’altra parte.
“E io?”, disse Veronico.
“Tu resti”.
“Ma come!”
“Tieni d’occhio la strada e fa’ la guardia insieme a Mischione”.
“Ma…”
“Niente ma! Voi due aspettatemi qui”.
“Uof”, disse Mischione.
Veronico si rassegnò a fare come gli aveva detto Barbone. Peccato, avrebbe preferito partecipare alla missione fino in fondo. E poi, doveva ammettere che ci avrebbe provato gusto a vedere che faccia avrebbe fatto Marco Sandroni, di fronte alle smorfie terrificanti di Barbone. Ma sarebbe stato possibile guardare dentro la sua stanza? E soprattutto, se Marco Sandroni si fosse accorto che Veronico era lì presente, avrebbe capito chi era il vero responsabile di quella vendetta.
Attraverso le sbarre del recinto, guardò Barbone incamminarsi verso la casa. La sua sagoma si muoveva fra le aiuole e i cespugli neri del giardino. Si diresse verso l’angolo, lo raggiunse e sparì lì dietro.
Rimasto lì da solo con Mischione, Veronico gli fece una carezza, anche se aveva sempre un po’ di titubanza a toccarlo, perché non era un cane molto pulito. Si guardò intorno. Erano le tre di notte, in giro non c’era nessuno. Lì dove si trovava, la strada era illuminata male: un unico lampione spargeva la sua luce gialla, ma era piuttosto distante. Guardando in alto, gli parve di riconoscere il profilo di una telecamera di sorveglianza. Affondò ancora di più la testa nel cappuccio della tuta e tirò su la sciarpetta, fin sotto gli occhi.
Da un momento all’altro si sentì un urlo. Veronico si voltò. Attraverso le sbarre, vide una sagoma scura che correva verso di lui. La sagoma saltò sul recinto, lo scavalcò, con un balzo atterò sul marciapiede.
Era Barbone.
Aveva la faccia terrea, terrorizzata, sembrava che gli si fosse sbiancata non solo la pelle, ma anche la barba.
Quinta parte
IL PRIMO SOGNO
“Presto, presto, scappiamo!”, disse Barbone. La sua voce era sconvolta.
“Che cos’è successo?”, disse Veronico.
Mischione abbaiò tre volte.
“State zitti e correte”, ordinò Barbone. “Forza!”
Veronico e Mischione obbedirono.
Andarono dalla parte opposta rispetto al lampione, dove la strada era ancora più buia. Girarono l’angolo, ma si trovarono davanti qualcuno.
“Fermi là!”, disse una voce.
Una luce forte li abbagliò.
Era una guardia, un sorvegliante privato, di quelli che controllano i quartieri di notte. Aveva in mano una torcia elettrica grande come un randello, la puntava sugli occhi di Barbone e Veronico.
Stavano per voltarsi e scappare, quando successe qualcosa. Mischione si mise ad abbaiare alla guardia, poi le ringhiò contro.
La guardia, che era così minacciosa, prima provò a dire: “ehi, ehi…”, proteggendosi con le mani avanti, poi si girò e si buttò a correre in mezzo alla strada, fuggendo più veloce che poteva.
Mischione non lo lasciò mica perdere. Si lanciò a inseguirlo.
Questo non bastò di certo a far sentire al sicuro Veronico e Barbone, che ripresero a correre anche loro, nella direzione opposta, ma senza sapere bene dove stessero andando. Svoltarono prima da una parte, poi dall’altra, infilandosi nelle strade a casaccio.
Dopo un po’ però Barbone rallentò e si fermò, piegandosi in avanti e piantando le mani sulle ginocchia. “Un attimo!”, disse con il fiatone, “Mi manca il respiro. Non sono più abituato…”
“Ma mi vuoi dire cosa è successo?” disse Veronico.
Barbone fece segno di lasciargli prendere una boccata d’ossigeno.
Veronico guardò la strada in cui si trovavano. Tutto era tranquillo. Anche troppo. Tutte le case si assomigliavano. “Ma dove siamo finiti?”, disse con un po’ d’angoscia. “Ci siamo persi!”
“Un lampo!”, disse Barbone, parlando con gli occhi sbarrati. “All’improvviso…”
“Che cosa?”
“Un lampo rosa! Mi stavo avvicinando alla finestra del tuo nemico, e, non so come, mi è scoppiato davanti… No, non proprio scoppiato… Non ha fatto rumore… Ma era come quando scoppiano i fuochi d’artificio… Una luce rosa…”
“Va bene, ma adesso cerca di calmarti”, gli disse Veronico, che era molto impressionato anche lui, e però voleva rassicurare il suo amico sconvolto.
Appena poterono si rimisero a camminare. Stavano sul lato più scuro delle strade, senza parlare. A un certo punto sentirono un rumore che si avvicinava. Si appiattirono contro il muro, con un soprassalto di paura nel petto.
Il rumore si faceva sempre più vicino, finché li raggiunse e fece: “Uof”.
“Mannaggia, Mischione”, disse Barbone. “Ci mancava solo che mi spaventassi anche tu!”
“Invece è stato bravissimo”, disse Veronico. “Ha fatto scappare la guardia!”
“Uof”, confermò Mischione.
Girarono un po’ a vuoto nel quartiere. Veronico era molto preoccupato, temeva di non ritrovare più la sua casa e di non rientrare in tempo. Barbone d’altronde non gli era molto d’aiuto, perché era ancora scombussolato per quel che aveva visto nel giardino di Marco Sandroni. A poco a poco però riuscì a tornare in sé. Tirò fuori dalla tasca un pezzo di stoffa, lo avvicinò al muso di Mischione e glielo fece annusare.
Il cane fiutò, aspirando forte un po’ di volte; poi annusò l’aria; poi l’asfalto del marciapiede; poi di nuovo l’aria. Alla fine disse solennemente: “Uof”. Puntò da una parte e si mise a trotterellare in quella direzione.
Veronico e Barbone lo seguirono. In poco tempo arrivarono al mucchio di stracci.
“Adesso va’ a dormire”, disse Barbone a Veronico. Intanto aveva già cominciato a raccogliere il suo mucchio di stracci. Li arrotolava uno intorno all’altro, facendone un fagotto.
“E tu, che farai?”, disse Veronico.
“Io vado via. Ma non ti preoccupare, tornerò a trovarti. Non di notte però. Da’ un’occhiata qui intorno, ogni tanto, per vedere se ci sono, fra una settimana o due. Ma solo di giorno! Promesso?”
“Promesso”, disse Veronico, e si incamminò per andare a riaprire il cancello di casa. Ma dopo due passi ci ripensò, e voltandosi disse: “Arrivederci a presto, Mischione!”
“Uof”, gli rispose il cane.
Veronico non era mai rientrato così tardi. Aveva paura di fare rumore, di inciampare un’altra volta e svegliare i suoi. D’altronde non era il caso di aspettare che facesse giorno, anche se non mancava molto all’alba. Il papà si alzava prestissimo, rischiava di farsi scoprire da lui. Ma quando entrò in casa, sgranò gli occhi dalla sorpresa. Un chiarore rosa era diffuso sul pavimento delle stanze. Era debolissimo, ma bastava a delineare i contorni delle cose per non andare a sbatterci addosso.
Allora la luce rosa c’è ancora, pensò Veronico. Prima, quando sono uscito era sparita.
Rientrò in camera senza inciampi, si spogliò, rimise in ordine i suoi vestiti da vendicatore mascherato e si infilò a letto.
Disteso fra le lenzuola, gli successe una cosa incredibile: si addormentò. E come se non bastasse, dopo qualche minuto visse un’esperienza ancora più straordinaria: fece un sogno.
Era la prima volta che sognava, perciò quello che vide e sentì fu piuttosto confuso. Ma intorno a lui c’era un chiarore rosa, che in pochi istanti si addensò da una parte, prendendo la forma di una bambina. Era molto piccola, piccolissima. Più ancora che una bambina, sembrava una neonata. La sagoma rosa, a poco a poco, si fece più vicina, aprì la bocca e, con una voce dolce e sottile, gli parlò:
“Veronico, finalmente…” gli disse. “Era da tanto che volevo incontrarti…”
Nel sogno, Veronico la guardava con gli occhi spalancati.
“Non ti ricordi di me? Eravamo insieme nella pancia della mamma. Sono nata pochi minuti prima di te… Ma quando siamo usciti di lì, io sono durata troppo poco… Però la faccia della mamma sono riuscita a vederla, e anche quella di papà… Dopo un’ora ho chiuso gli occhi, mi sono addormentata per sempre… Loro hanno fatto in tempo solo a darmi un nome… Mi hanno chiamata Veronica…”
Veronico ascoltò in sogno la voce di sua sorella, Veronica, la gemella che non sapeva di avere avuto, perché la mamma e il papà non glielo avevano ancora detto. Lei continuò a parlargli ancora un po’. Gli disse che non va bene vendicarsi delle persone, nemmeno quando sono cattive. “Sono stata io stanotte a fermarvi spaventando Barbone…” disse. La sua sagoma di luce rosa si avvicinò ancora di più e, parlandogli in un orecchio, gli suggerì una cosa da fare. Poi svanì.
Quello fu il primo di una lunga serie di sogni, perché da quella notte Veronico cominciò a dormire, come tutti quanti, con o senza l’aiuto delle favole.
Ma intanto, la mattina dopo, a scuola, Veronico e Sabrina andarono da Marco Sandroni. Lo chiamarono in disparte per parlargli. Vedendoli arrivare insieme, lui si sentì montare una rabbia…! Aveva già in mente che cosa gli avrebbe fatto, a tutti e due. A Veronico gli pesterò un piede, sul dito piccolo, dove fa più male; e a Sabrina le strappo una ciocchettina di capelli!
Ma quei due gli sorridevano. Si avvicinarono mano nella mano, e quando lo raggiunsero presero anche le sue, di mani, e gliele strinsero forte.
Guardandolo negli occhi, Veronico gli disse: “Marco, perché non ci racconti che sogno hai fatto stanotte?”
E siccome Marco Sandroni c’era rimasto di sasso, Sabrina insisté: “Che cos’hai? Perché ci guardi così? Diciamo proprio a te, carissimo Marco.”
Marco Sandroni aveva otto anni, proprio come loro. Quella mattina, per la prima volta si mise a raccontare un suo sogno. Scoprì che è così bello, avere qualcuno che ti ascolta.
Quello fu l’inizio della loro grande amicizia.
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