Il Veneto conquistato dalle mafie: il romanzo criminale della camorra a Eraclea

I boss, i personaggi, i legami economici e politici del gruppo Donadio con la 'ndrangheta. Da Jesolo, a Caorle e San Donà, intere porzioni della nostra regione conquistate dalle mafie
Un fermo immagine tratto da un video della guardia di finanza mostra i finanzieri del GICO dell'Aquila stanno eseguendo una ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 10 persone a L'Aquila, 7 settembre 2019. Tra questi - 8 di origine tunisina e 2 italiana - anche l'imam della moschea Dar Assalam di Martinsicuro (Te) e una commercialista italiana. Tutti sono indagati per reati tributari e di autoriciclaggio, con finalità di terrorismo..ANSA/GUARDIA DI FINANZA EDITORIAL USE ONLY NO SALES
Un fermo immagine tratto da un video della guardia di finanza mostra i finanzieri del GICO dell'Aquila stanno eseguendo una ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 10 persone a L'Aquila, 7 settembre 2019. Tra questi - 8 di origine tunisina e 2 italiana - anche l'imam della moschea Dar Assalam di Martinsicuro (Te) e una commercialista italiana. Tutti sono indagati per reati tributari e di autoriciclaggio, con finalità di terrorismo..ANSA/GUARDIA DI FINANZA EDITORIAL USE ONLY NO SALES
È il pomeriggio del 20 marzo 2017, nella sontuosa aula dell’archivio storico del Bo, il cuore dell’università di Padova. Il professor Costantino Visconti ha appena finito di discutere di mafie e procedura penale con Vittorio Borraccetti, membro del Consiglio superiore della magistratura, Antonio Parbonetti, prorettore dell’Ateneo e Rocco Sciarrone, docente di sociologia a Trento.
 
Il pubblico si sta radunando attorno a Visconti ma un magistrato si avvicina a Borraccetti. Si conoscono da tanto e spesso discutono cercando consigli. “Come va dopo Aspide? ”, chiede Borraccetti al magistrato più giovane, che ha condotto l’inchiesta sulla società della camorra “Aspide”, che offriva agli imprenditori veneti la possibilità di evadere le tasse e non pagare i contributi ai dipendenti, ma anche di recuperare crediti per vie spicce e con i camorristi casalesi che si facevano ridare i soldi per conto degli imprenditori, trattenendo una percentuale.
 
“Male, demoralizzante, troppe cose al fuoco”, spiega il sostituto procuratore Roberto Terzo, “pensa che sto seguendo una organizzazione che cura anche il recupero crediti e ha la fila fuori dalla porta, con gente sempre in cerca di accordi, amministratori pubblici compresi”. 
 
È la spiegazione più efficace di quanto è successo a Eraclea il 19 febbraio 2019 quando 50 persone tra imprenditori, politici, poliziotti e amministratori pubblici sono state ammanettate con l’accusa di associazione mafiosa. Mercoledì 8 gennaio, nell’aula bunker di via delle Messi a Mestre, si è aperto il più grande processo contro esponenti mafiosi dai tempi del maxiprocesso alla mafia del Brenta del 1994. Da allora è passato un quarto di secolo e il Veneto, i cui vertici regionali per decenni hanno sminuito il pericolo, si ritrova con ampie porzioni del suo territorio controllate da clan della camorra e della ’ndrangheta. 
 
Il boss
 
Tutto nasce in un comune di appena 12 mila abitanti suddiviso in paeselli molto rivali tra loro (Brian, Ca’Turcata, Eraclea, Ponte Crepalldo, Stretti, Torre di Fine e Valcasoni) ma, soprattutto, in una frazione balneare – Eraclea Mare – che è stata presa dalla tarantola turistica che ha sconvolto la costa veneta vedendo crescere la fede nel “dio metro cubo” che ha elargito ai suoi fedeli ricchezze nate da semplici pezzi di terra semi sterile per il salso marino. 
 
Qui è atterrato nei primi anni Novanta Luciano Donadio, classe 1966 di Giugliano, provincia di Napoli, a due passi da Casal di Principe, la terra dei camorristi casalesi, quelli che con le discariche abusive fanno morire di tumore i neonati pur di fare business, quelli capitanati da Francesco Schiavone, detto “Sandokan”. Accanto a lui, quando gli affari si sistemano, arriva Raffaele Buonanno, la cui moglie è cugina dei boss casalesi Bianco e Bidognetti. 
 
I cantieri di Donadio dopo poco sono in prima fila nella costruzione dei villaggi turistici, lui sponsorizza la squadra di calcio e i suoi metodi, poco ortodossi, vengono comunque tollerati, anche dopo il 2006, quando un’inchiesta su un giro di usura ai danni di altri imprenditori del Basso Piave, lo porta in carcere con un patteggiamento di un anno e otto mesi. 
 
Eppure proprio nel 2006, secondo la ricostruzione degli inquirenti, (in questo caso è già scattata la prescrizione), si assiste al primo vero contatto politico con Graziano Teso, il candidato del centrodestra. Non tutti nell’area politica di riferimento sono d’accordo. Il segretario di zona di Alleanza nazionale, Adriano Burato, parla ad esempio di “legami preferenziali dell’amministrazione comunale con le ditte di Donadio”. Gli bruciano l’auto. 
Secondo la procura l’accordo tra Teso e Donadio si conclude in briciole: 10mila euro per finanziare la campagna del candidato. Che però viene battuto dalla lista di centrosinistra di Giorgio Tallon. 
 
Tentacoli
 
No problem, anzi. È proprio in questo periodo che si rafforza il potere di Donadio sul Basso Piave e oltre. Il boss fa arrivare i parenti naturali e acquisiti. Il nucleo dei “campani” abita in villette o appartamenti che lo stesso Donadio mette a disposizione, mai troppo distanti l’uno dall’altro.
 
Il nucleo s’ingrandisce negli anni: tutti lavorano per Luciano. E lui ci gode e fare capire ai “veneti” la sua forza. Con sfrontatezza: l’ingresso di una delle sue ditte nell’appalto per il restauro della questura di Venezia, il completamento di decine e decine di operazioni immobiliari – alcune davvero spericolate – la messa a punto dei legami con Moreno Pasqual, assistente capo della polizia di Stato in servizio al commissariato di Jesolo, quello competente per territorio, poi, dopo anni, trasferito al reparto mobile (la Celere) a Milano. Ma anche con l’imprenditore jesolano Graziano Poles, che prima era vittima dei giri di Donadio e poi diventa suo alleato. Ma soprattutto quello che riesce al camorrista di Giugliano, che ora si fa chiamare “boss” in Veneto orientale, è il rapporto stretto, strettissimo, con il territorio. 
 
Ogni tanto, va beh, c’è qualche screzio, come quando il figlio Adriano deve minacciare un barista: “Informati chi sono, io sono Donadio. Io ti sparo in bocca”. 
 
A chi non paga le rate, anche per piccole somme, arriva la “carrozz’’e mazziat’”, il vagone di botte, secondo la sua filosofia: “Fagli sempre paura, fai capire chi sei”. Ma per il resto a Eraclea Donadio è temuto e amato. “Te lo dico io, che senza tuo padre… se non ci fosse lui avremmo casini”. “È vero, risponde l’altro figlio Claudio, qui a Eraclea abbiamo un Don… è una fortuna”. 
 
Eppure oltre a stringere la cravatta attorno a chi gli chiede denaro, oltre a mettere gli occhi sulle aziende di chi gli ha chiesto il recupero crediti, oltre a impoverire tutta la zona applicando il sistema mafioso “ricchezza e potere solo a me” e il territorio non conta, Luciano Donadio non disdegna di fare la cresta anche sulle prostitute, facendosi pagare un affitto dagli albanesi protettori delle ragazze, e soprattutto fa fare un carosello al personale delle sue società: licenzia da una parte per rimettere dall’altra, affidando tutto al sandonatese Christian Sgnaolin. In pochi anni chiudono una dopo l’altra quasi tutte le imprese della zona concorrenti nel campo dell’edilizia.
 
Il Comune
 
L’unica cosa che non va più bene è in Comune, dove il centrosinistra mette a gara la gestione di alcuni servizi che il figlio di Luciano si aspettava “come un diritto”, tanto che Donadio arriva a rivolgersi alla stampa per protestare contro quella che chiama “una discriminazione basata sul cognome”. 
 
Per questo quando Graziano Teso si dà da fare per battere il centrosinistra alle elezioni del 2016 e tornare al potere la riedizione di quella che a molti è sembrata un’alleanza con il clan Donadio si ripropone con naturalezza. Tantopiù che, e qui ecco il colpo da maestro, il candidato sindaco non sarà più il grande e grosso Teso, ma il legale che aveva seguito Donadio e le sue società quando il boss era finito in carcere nel 2006, l’avvocato Mirco Mestre. 
 
Un legale brillante, capace di togliere dai guai i propri clienti, erede di una famiglia notissima in tutto il Basso Piave, un nome meno ingombrante di quello di Teso, un professionista alla prima esperienza politica che però è in grado di dare garanzie a tutto il centrodestra, un candidato che si presenta quindi “con la vittoria in tasca”. Ma il crac arriva quando il resto del centrodestra sente troppa puzza di zolfo e capisce il gioco di Teso: nessuno dimentica la fine dell’auto di Burato. Intervengono le segreterie provinciali e la coalizione delle destre unite non si fa più. Teso non fa una piega. La sua lista e il suo candidato correranno da soli. 
 
Mirco Mestre, però, si trova impreparato davanti alla nuova situazione. Conosce il suo cliente ma capisce che ogni voto diventa improvvisamente prezioso, che sarà una campagna faccia a faccia a promettere. Un cliente bifronte. Da una parte Donadio si fa avanti con richieste pericolose, come le autorizzazioni immediate a una centrale a biogas che, si sospetta, sarebbe diventata un’ennesima grande truffa sui fondi ambientali. Dall’altra il camorrista nicchia sull’aiuto concreto, i voti: prima vedere cammello. 
 
Quando il boss manda avanti Emanuele Zamuner, il carrozziere che tiene i contatti con i Donadio, Mestre capisce che il gioco si fa sempre più pesante e chiede a Zamuner di tenere “segreti” i contatti. Peccato che sia lo stesso Donadio a dire tutto agli amici quando arriva l’insperata vittoria di Mestre per appena 81 voti di scarto. Al telefono il boss, forse ubriacato dall’incredibile trionfo, diventa loquace.
“Quello è il mio avvocato – dice mentre viene intercettato –, o’compagno mio, il mio partito è quello… Infatti ha vinto quello che dicevo io. E vinse, guarda, la prima cosa che disse: “I voti di Donadio”. Vinse per 80 voti di differenza. I miei voti. Gliene portai pure più di 80. Hai capito? Tra parenti e amici. Gente che fanno quello che dico io”. 
 
Secondo la procura i voti garantiti dai “campani” dovrebbero superare il centinaio.Ma per il progetto della centrale a biogas, per cui il boss si era fidato di Paolo Antonio Valeri, anche lui secondo gli inquirenti esperto nel recupero crediti e nelle truffe con società sull’orlo del fallimento, va tutto a rotoli: Valeri non è capace di portare la richiesta di integrazioni fatta dal Comune. Donadio si arrabbia, ma è tutto inutile. 
 
At Least
 
Il clan pensa a come fare per imporre la centrale attraverso cui potrà accedere a un bel rivolo di fondi europei, ma all’alba del 19 febbraio 2019 scatta l’operazione At least della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Venezia, indagine coordinata proprio dal sostituto procuratore Roberto Terzo e dalla collega Federica Baccaglini. In 47 finiscono in carcere, compresi Donadio e Mestre, 87 le persone indagate a vario titolo (poi diventeranno 76), tra cui Graziano Teso, il cui presunto voto di scambio con Donadio del 2006, in tempi di prescrizione breve, è però prescritto, cioè cancellato senza processo. 
 
Accanto alla mole di lavoro per magistrati e avvocati c’è anche quella derivante dall’inchiesta amministrativa. Viene nominata una Commissione di Accesso (composta da un ufficiale della Guardia di Finanza, da un funzionario di polizia e da uno della Prefettura). La Commissione raccoglie tutto il materiale che dimostra i legami tra amministrazione e clan, mentre un commissario prefettizio manda avanti la macchina comunale, e, nonostante ripetute segnalazioni di difficoltà nell’ottenere i documenti ricercati, tanto che la Commissione deve chiedere un prolungamento dei termini dell’indagine, si arriva al dunque.
 
Dopo dopo aver esaminato gli atti del Comune di Eraclea alla ricerca di collegamenti con la camorra, il 7 novembre la Commissione d’Accesso ha presentato la sua relazione al prefetto Vittorio Zappalorto che, dopo averla esaminata, il 19 dicembre ha presentato al Ministero dell’Interno la sua richiesta di sciogliere il Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Ora starà al Viminale la decisione definitiva che sarà poi controfirmata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sarebbe il primo caso in Veneto. 
 
L’inguaiato. 
 
Ma la costa veneziana non si ferma a Eraclea e nel frattempo Donadio riceve segnali “di rispetto” da due ex carabinieri. Sono Claudio Casella, di Caorle, e Samuele Faè. Entrambi si definiscono imprenditori nel campo dell’edilizia. Casella è già salito all’attenzione dell’antimafia quando i legami con la’ndrangheta della locale Grande-Aracri portano ad analizzare le società del costruendo parco eolico di Cutro e vi compare la Faècase. Casella è lo stesso che da anni sta spingendo per la costruzione delle “Terme di Caorle” assieme a Faè, che a sua volta è molto bravo nell’assicurare di avere una rete di contatti internazionale. 
 
Ma Faè evidentemente non è un genio della finanza e quando deve mettere a frutto un bel gruzzolo di soldi in contanti sceglie l’unica opportunità che gli segnala Casella e che non è certo una società internazionale ma che, anzi, sta a pochissimi chilometri da Caorle ed è gestita da un caorlotto.
 
L’ex portiere notturno Fabio Gaiatto ha infatti aperto una sua serie di società di trading che, a livello locale, lo fanno apparire un mago della finanza, tanto da assicurare a Faè – a parole – un reddito mensile pari all’8 per cento. Basterebbe fare due conti per capire che in un anno farebbe il 96%, un tasso di arricchimento impossibile a livello finanziario nel brevissimo periodo. In realtà più che mago Gaiatto è un piccolo truffatore che applica lo “schema Ponzi” ai suoi clienti. Rende cioè ai vecchi clienti in uscita il capitale con gli alti interessi maturati, che però non sono altro che i soldi affidatigli dai nuovi clienti in ingresso, ingolositi da interessi che non si trovano altrove. 
 
Uno schema chiamato “fly high”, vola alto, ma che, come per gli aerei veri, se viene a mancare la benzina, cioè i soldi dei nuovi clienti, è per forza destinato a schiantarsi. Gaiatto apre conti tra Italia, Croazia e isole della Manica per nascondervi i soldi che gli serviranno a vivere in fuga quando il giochino verrà scoperto. A lui Faè affida sei milioni, pare non tutti suoi, forse – lo appurerà il processo – anche di Donadio, salvo poi sentire le prime voci su ritardi nei pagamenti. A questo punto Faè minaccia Gaiatto di ritorsioni fisiche su lui e la propria convivente, la bella Najima Romani, se non riavrà i propri soldi. Dopo di lui si presenta tutta la banda. Tutti a minacciare l’iradiddio.
 
Ma ormai è tardi, Gaiatto può dare solo gli interessi, e non tutti. Il capitale è perso. Quando il crac arriva in procura a Faè non resta che dichiararsi truffato. Si presenta quindi alla costituzione delle parti civili, a Cordenons, a bordo di una Porsche, affermando di aver perso 9 milioni di euro nel business Forex del broker Gaiatto. Broker che, di suo, viene condannato a 15 anni e 4 mesi per aver truffato oltre 3 mila clienti. 
Ma se devi fare il boss devi farlo sempre, invece ora non puoi più tartassare un ex ricco rimasto a secco, lasciato pure dalla compagna e condannato a sopravvivere 15 anni in cella.
 
Così le minacce e le estorsioni fatte a Gaiatto sono ormai lettera morta, ma arrivano comunque al pettine e la Direzione distrettuale antimafia di Venezia presenta il conto a tutti e avvia un altro processo, il cosiddetto “Casalesi leggero”, che si è aperto sempre l’8 gennaio 2020 in aula bunker a Mestre e che vede Gaiatto tra le parti lese. Processo interessante per il quadro delineato dall’inchiesta. 
 
Amici
 
Nell’avviso di fine indagine i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Venezia, mettono in luce come Gaiatto sia una vittima di Donadio e dei suoi amici. Scrivono: “.... Donadio Luciano, Buonanno Raffaele, Fabozzi Giacomo, Notarfrancesco Berardino, Faè Samuele, Casella Claudio in concorso tra loro (e in concorso anche con Iozzino Francesco, Celentano Gennaro, Borriello Walter), con metodi mafiosi ed anche qualificandosi come appartenenti ad un sodalizio mafioso “casalese” operante in Eraclea, di cui tutti fanno parte o concorrono, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, il Faè Samuele anche nella veste di mandante oltre che concorrente materiale, mediante reiterate minacce di gravi danni per l’incolumità personale e dei familiari e in particolare minacciando ritorsioni gravi da appartenenti alla criminalità organizzata, costringevano l’imprenditore Fabio Gaiatto, promotore finanziario presso il quale Faè Samuele aveva effettuato investimenti speculativi remunerati con l’8% di interesse mensile, a consegnare loro, reiteratamente, somme di denaro a titolo di rimborso dell’investimento di 7. 000. 000 di euro (comprensivo di interessi) effettuato nel maggio 2017 da Faè Samuele nonché a consegnare 250. 000 euro al Donadio Luciano, quale mediazione per il sodalizio...». 
 
Sui soldi, insomma, ci cascano tutti: ci lasciano lo zampino. Scrivono infatti i magistrati: «... Faè, incaricando nei primi giorni dei 2017 il Donadio e il Fabozzi (che accettavano l’incarico dietro il compenso di una percentuale sul credito da riscuotere) della riscossione del suo credito di 7. 000. 000 di euro nei confronti del Gaiatto... il Casella (che aveva inizialmente procurato al Gaiatto l’investitore Faè) contattando il Gaiatto ed invitandolo a restituire il denaro al Faè ammonendolo che questi aveva la protezione di un pezzo grosso della criminalità; -... lo stesso Faè, quindi, sollecitando reiteratamente al Gaiatto la restituzione del capitale sia personalmente sia incontrandolo assieme Casella ed in tale occasione preannunciando alla vittima un imminente incontro con “la persona importante che stava dietro il Faè”... quindi il Donadio, accompagnato dal Casella, dal Fabozzi, dal Notarfrancesco e da un altro sodale (e in costante contatto telefonico con lo stesso Faè), incontrando il Gaiatto e qualificandosi come “casalese” dice «vedi come dico io, sono di Casal di Principe, non sono di quei casalesi là, ma comunque sono di Casal di Principe e faccio anche io le mie cose, giusto o no? », invitandolo perentoriamente a consegnare il denaro al Faè entro due settimane». 
 
Una cosa, insomma, è certa: tra i sospettati di essere i rappresentanti della’ndrangheta e della camorra sulla costa veneta il rapporto è da baci in bocca. Al punto da presentarsi come un unico clan “casalese”. 
Ma come mai Faè, Casella e Donadio sono così affiatati? Dove va a convergere il loro business, al punto da trovare naturale difendersi l’un l’altro? Cosa hanno in comune? 
 
Caorle
 
Già nei giorni successivi al blitz del 19 febbraio, erano emersi i contatti tra Donadio e Casella, da molti ritenuto «grande elettore» dell’attuale sindaco di Caorle Luciano Striuli. A Novembre la notifica di fine indagini ha scoperto le carte della Procura antimafia. Gli inquirenti ritengono Casella e Faè due elementi del triangolo con cui Donadio cerca di allargare gli affari a Caorle.
 
Ma soprattutto sarebbero la sponda mafiosa che a Donadio può fare comodo: due che lo possono mettere in contatto con la’ndrina Grande Aracri, che in Emilia e Veneto è attiva ormai in ogni tipo di business, e che cerca di dominare anche quello dei rifiuti, uno dei campi in cui le ecomafie del litorale si sono dimostrate molto attive negli ultimi anni, tra incendi di aziende e “broker” dei rifiuti speciali che trovano capannoni vuoti da riempire di scarti di lavorazioni. Ma il colpo gobbo sarebbe indubbiamente il polo termale. 
 
Per le Terme di Caorle, già nel 2016, un gruppo di deputati del Pd (Alessandro Naccarato, Michele Mognato, Andrea Martella e Sara Moretto), avevano presentato un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno, chiedendo spiegazioni sull’intervento edilizio denominato “Villaggio Le Terme di Caorle”, promosso dalla Caorle Investimenti Srl, amministrata da Claudio Casella, immobiliarista e imprenditore nel settore del gioco online, che, ricordano i quattro deputati «riguarda la realizzazione di una struttura di notevoli dimensioni e prevede un consistente aumento della cubatura edificabile in una zona del comune di Caorle, da 60. 000 a 241. 000 metri cubi». 
 
I parlamentari del Pd temono che sia vero quello che la gente mormora e che dietro all’operazione ci sia un investimento della criminalità organizzata a Caorle. 
 
La vicenda si trascina per diverso tempo, anche qui con auto bruciate a consiglieri di opposizione in Comune quando questi sollevano la questione, e lettere anonime ad amministratori vari e a una eurodeputata leghista. Contemporaneamente, gli investigatori della polizia di Stato e della guardia di finanza che si occupano di Eraclea registrano le intercettazioni con le richieste di Claudio Casella a favore del candidato sindaco (e attuale primo cittadino) Luciano Striuli e al candidato consigliere Giuseppe Boatto che, almeno fino a prova contraria, possono essere stati all’oscuro dell’intervento dell’imprenditore. Chi però aiuta Striuli lo fa con un metodo collaudato nel vicino Friuli. 
 
Lignano Sabbiadoro, ad esempio, alle elezioni del 2012 aveva visto quattrocento persone, tutte maggiorenni, arrivare qualche mese prima del voto da Frattamaggiore, paesino in provincia di Napoli. Tantopiù che tutte e 400 hanno ottenuto in tempi straordinariamente rapidi la residenza e quindi la tessera elettorale della località friulana, potendo così votare in un comune in cui si presentava un loro compaesano, l’ex vicesindaco Giovanni Iermano. Per questo il comandante della polizia locale lignanese, Giorgio Vizzon, finisce indagato. È certamente un caso che all’epoca Vizzon fosse anche sindaco di San Michele al Tagliamento Bibione, altra località balneare e termale, prima spiaggia d’Italia per presenze. 
 
Una cosa forse più pittoresca ma meno dispendiosa capita a Caorle il 5 giugno 2016, quando una serie di auto con autista portano ai seggi cittadini romeni con domicilio in zona, che però, come cittadini comunitari, avevano chiesto tre mesi prima il diritto di voto alle comunali di Caorle. C’è chi nota che molti degli operai di Donadio, Sgnaolin e Pasqual sono romeni. Oppure che Donadio è amico di Casella e che il candidato consigliere Giuseppe Boatto non ha mai fatto mistero del suo legame con Casella. Il via vai di auto a Caorle, con gli autisti che vogliono scortare i passeggeri sin dentro la cabina elettorale, viene segnalato e provoca l’intervento ai seggi delle forze dell’ordine. 
 
Ma perché Casella vuole fare eleggere Striuli e Giuseppe Boatto? Forse per essere agevolato nelle autorizzazioni alla costruzione del villaggio termale? E cosa viene promesso in cambio a Donadio? Magari quest’ultimo, imprenditore pure lui, potrebbe investire del denaro da ripulire, denaro che potrebbe essere provenire da traffici illeciti come usura, estorsioni, evasione e sfruttamento della prostituzione. Quesiti che dovranno trovare una risposta grazie al lavoro della Dda di Trieste, competente per territorio, dato che la zona di Caorle rientra sotto la giurisdizione del tribunale di Pordenone. 
 
Una vicenda che dimostra come anche i calabresi conoscono lo spessore di Donadio e sanno a chi è legato. Sanno anche, come emerge in diverse informative delle forze di polizia, che devono chiedere a lui prima di mettere piede nelle zone dove ha i suoi affari. È indubbio che Casella che chiede a Donadio di far votare il sindaco Striuli a Caorle, è l’uomo che lo può coinvolgere nella realizzazione del Villaggio Termale a Caorle, come dire un affare da 240 mila metri cubi di cemento. 
 
Jesolo e San Donà
 
Che Donadio abbia governato ampie fette dell’intero Basso Piave, da San Donà a Jesolo gli investigatori lo hanno immediatamente capito sia dai contatti con il poliziotto jesolano Moreno Pasqual sia con il sandonatese Christian Sgnaolin ma soprattutto per i contatti “più che professionali” con il direttore di banca Denis Poles (ex responsabile delle sedi Monte dei Paschi di Jesolo e Musile) che inventa un giro di pagamenti del personale delle ditte di Donadio tramite carte prepagate, che in realtà servivano a provare contratti di lavoro inesistenti per fare avere permessi di soggiorno, e che venivano restituite dai dipendenti a Donadio dopo qualche giorno. Sgnaolin, 47 anni, anche lui accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso, ha spiegato ai magistrati che Donadio aveva organizzato un sistema di caporalato con lavoratori praticamente in nero, che nominalmente figuravano costare 18 euro l’ora, impiegati nelle imprese edili di Graziano Poles.
 
Il sistema, ha raccontato Poles, era semplice: “Non versavamo contributi, cassa edile e ogni altro onere”. Un giro di decine di migliaia di ore di lavoro al mese: Donadio ne tratteneva 5 l’ora, i caporali due. In questo modo il boss di Eraclea poteva controllare decine e decine di persone e allo stesso tempo incassare decine e decine di migliaia di euro. 
 
Uno spaccato dell’assoluta impunità che Donadio vantava su entrambe le rive del Piave lo ha fornito in dicembre ai magistrati il nipote di Donadio, Antonio Puoti che ha ricostruito la fitta ragnatela di informatori che lo zio aveva disposto e i suoi plenipotenziari per zona: “a Jesolo era Mauro Secchiati a occuparsene, se qualcosa succedeva a San Donà era Mimmo Celardo a occuparsene”. 
 
Un sistema che vedeva Donadio arrivare in caso di bisogno, sempre scortato da una seconda auto con a bordo “Giacomo Fabozzi e Tommaso Napoletano, armati che garantivano la sicurezza agli incontri”. 
 
In almeno due occasioni, spiega Puoti, i Donadio avrebbero avuto anche la forza di minacciare esponenti delle forze dell’ordine. Una volta con Luciano che ha sibilato a un agente della polizia locale che l’aveva fermato perché guidava con il telefonino in mano: “fai pure quello che devi fare, che poi vengo in ufficio e ti spacco le gambe” e l’agente che se n’era andato senza elevare la contravvenzione. 
 
Un’altra con il figlio Attilio che aveva semplicemente spiegato chi era ai carabinieri che l’avevano fermato mentre guidava contromano a Eraclea. Secondo Puoti i militari, dopo aver riconosciuto il giovane figlio del boss, si sarebbero limitati a dirgli: “va bene, andate via ma state attenti”. 
 
E con chi non si piegava alla sua regola Donadio pianificava la vendetta. Con un carabiniere che aveva sequestrato l’auto del suo guardaspalle Giacomo Fabozzi il boss aveva scelto la linea dura e aveva ordinato di pedinarlo. Racconta Puoti: “Donadio aveva detto che si sarebbe vendicato e che intendeva far picchiare il carabiniere sorprendendolo di sera per strada”. Poi per fortuna è arrivata la retata del 19 febbraio. 
 
Un clima d’impunità ottenuto grazie a un’organizzazione ramificata in tutto il Veneto orientale. È però chiaro che i contatti e gli interessi dell’organizzazione a Jesolo e San Donà andranno ora portati alla luce con il prosieguo di nuovi rami d’inchiesta. 
 
Un’indagine che è appena iniziata e che nessuno sa dove potrebbe portare. Solo una cosa è sicura. Al di là della colpevolezza o meno per i reati loro ascritti, che sarà valutata dai magistrati in ogni grado di giudizio, i modi usati, il livello di sicurezza, talvolta di strafottenza mostrato da Donadio, Casella e Faè nei loro business, nel loro modo di comunicare, nel loro agire, fanno capire come si sentano assolutamente padroni di un territorio. 
 
*** PER APPROFONDIRE ***
 
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