Infradito, costume e maleducazione, è la movida estiva della montagna

I gestori dei rifugi dolomitici non ce la fanno più: «Non mettono la mascherina, insultano e contestano le tariffe»
Cortina D'Ampezzo, 16 luglio 2007. Il lago Sorapìss sotto l'omonimo monte a m 2000.
Cortina D'Ampezzo, 16 luglio 2007. Il lago Sorapìss sotto l'omonimo monte a m 2000.

COMELICO SUPERIORE. Anche l’ultima settimana di agosto è continuato l’assalto ai rifugi. Magari con le infradito ai piedi, anche là dove il sentiero ha scalini di sassi e roccia.

Ecco, dunque, comparire al rifugio Berti, ai piedi del Popera, le ragazze in pantaloncini e reggiseno. Vicino c’è il lago, non così rinomato come quello del Sorapis, ma comunque adatto per prendere il sole in costume da bagno.

I rifugisti hanno perso la pazienza e all’inizio di questa settimana si sono messaggiati tutto il loro malumore. Dal Comelico all’Altopiano di Asiago.

«Sì, c’è troppa confusione», protesta Bruno Martini, gestore del Berti. «Pochi si mettono la mascherina all’ingresso e rispettano il distanziamento. Troppi i maleducati che insultano quando gli si dice di evitare l’assembramento. Arrivano mezzi svestiti e tali restano anche se le temperature scendono e arriva il temporale. Si fiondano sul vicino laghetto come fossero in spiaggia».

È la movida dei laghi alpini. Martini è naturalmente soddisfatto dell’affluenza e in particolare delle consumazioni; l’ospitalità notturna, invece, si è ridotta ad un decimo. Mancano completamente gli stranieri. Un’assenza che pesa soprattutto sulle Alte Vie alpinistiche, come la numero 1 che parte dal rifugio Biella. «Non è facile arrivare quassù, ci vogliono più di due ore a piedi, e quindi», dice Silvia Salton, figlia di Guido, lo storico gestore, «non vi approda il popolo della movida. Però ci sono quelli che improvvisano. La cosa più curiosa sono coloro che sopraggiungono senza la suola degli scarponi. Almeno 40-50 a stagione. A casa recuperano i vecchi scarponi, abbandonati magari da decenni, li calzano senza verificarne la tenuta, e lungo il sentiero, che non è facile, si stacca qualche pezzo. A suo tempo ci eravamo attrezzati con scarponi a disposizione, ovviamente in vendita, ma c’era gente che li rifiutava: non piaceva il colore. Quest’estate ci limitiamo a fornire le stringhe da elettricista per tenere la suola».

«No, quest’estate non ho visto escursioniste con i tacchetti ed i lustrini ai calzoni come l’anno scorso», confida dal rifugio Venezia, ai piedi del Pelmo, Barbara Feltrin. Ma è ugualmente una “furia”. «Il collega che ha invocato l’esercito ha visto giusto», racconta. «L’altro giorno un avventore, così lo chiamo, che pranzava all’esterno, è entrato quattro volte in rifugio e tutte e quattro le volte senza mascherina. Ho perso la pazienza e l’ho cacciato. C’è anche chi protesta perché chiede (e non trova) i caffè o gli aperitivi che ha il bar di corso Italia a Cortina. Ieri una delle mie ragazze è stata quasi aggredita perché facciamo pagare l’acqua, peraltro secondo il prezzo Cai. Ma si sa che solo per il trasporto io consumo un treno di copertoni da mille euro l’estate?».

Feltrin non “incolpa” tutti coloro che raggiungono il rifugio, la maggioranza è responsabile, ma ci sono elementi da… rimandare al mare.

«Ieri, durante il temporale, una coppia in calzoncini e t-shirt ha deciso di scendere, portandosi in testa la sola coperta che aveva nello zaino. Da incoscienti».

Giorni fa sul Civetta era stata recuperata un’alpinista ungherese che sarebbe stata abbandonata dai compagni di ferrata perché era stanca e voleva riposarsi. «È falso», precisa Venturino De Bona, che gestisce il rifugio Torrani, il più alto delle Dolomiti, a 3000 metri. «Quella signora non era in compagnia, saliva da sola. Chi arrampica non abbandona nessuno. Semmai questo accade lungo un sentiero».

Ma sul “nido d’aquila” del Civetta arrivano solo alpinisti responsabili? «I più sì, ma troppo spesso, soprattutto quest’estate, ci sono gli incoscienti che partono a mattina inoltrata, anche verso mezzogiorno. Arrivano nel pomeriggio inoltrato e qualcuno di loro magari vuole scendere dopo essersi fatto un tè. Un tentativo di suicidio».

Davanti alle pareti del Civetta sta di guardia, come una sentinella, il rifugio Tissi con il suo gestore, Valter Bellenzier. «Come va? No, non è proprio il caso di lamentarsi. In giugno temevamo addirittura di non aprire. Luglio e soprattutto agosto abbiamo fatto il pieno di italiani; certo, non a dormire».

Ma in parete non si sono verificati incidenti, quindi non sono state prese d’assalto? «Come no? Due soli soccorsi, ma chi arrampica ha la testa sulle spalle. Sa che non può permettersi il minimo errore».

Ci vogliono tre ore di salita per raggiungere il Tissi. Quassù, dunque, non approdano i ragazzi della movida.

«Si fermano al laghetto Coldai. Ma se prendono il sole in costume, senza disturbare, perché non lasciarli fare?». E quassù al Tissi? «Qualcuno “rompe”. Ha pretese d’albergo, soprattutto per dormire. Siamo alla guerra delle coperte. Ma sono pochi. I veri alpinisti si accontentano». —


 

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