La grande sete della montagna: i malgari riportano il bestiame in pianura

Manca acqua in quota, la «demonticazione» è iniziata con due mesi di anticipo. Le malghe hanno tamponato riempiendo le pozze con le autobotti ma non basta, e l’erba si è seccata e non ricresce

Sergio Frigo
Le mucche vengono trasferite dal Col Toront sul Nevegal nel Bellunese ormai senz’acqua e con pascoli secchi
Le mucche vengono trasferite dal Col Toront sul Nevegal nel Bellunese ormai senz’acqua e con pascoli secchi

ASIAGO. In città – finché l’acqua sgorga dal rubinetto e si può accendere il condizionatore e acquistare il cibo al supermercato – possiamo anche illuderci che il cambiamento climatico non sia una questione così drammatica. In montagna no. Chi vive quassù vede i campi ingiallire, le sorgenti seccarsi e le pozze svuotarsi, e specularmente gli alberi abbattuti dai tornadi e le strade franare.

Una delle conseguenze del fenomeno si chiama “demonticazione”, cioè il ritorno in pianura delle vacche dagli alpeggi, che è già iniziato con due mesi di anticipo rispetto al solito. Ad annunciarlo per primi sono stati i gestori di una malga molto nota nel Vicentino, Serona, che dai suoi 1260 metri di altitudine offre una vista spettacolare dall’Altopiano dei Sette Comuni sulla pianura veneta.

Prati per il pascolo in Lessinia ingialliti dall’ondata di caldo eccezionale di questi mesi
Prati per il pascolo in Lessinia ingialliti dall’ondata di caldo eccezionale di questi mesi

La causa è nota: mancano l’acqua nelle pozze e l’erba nei prati, e in queste condizioni tenere le vacche in montagna diventa un costo insostenibile. In realtà i gestori – le famiglie Nicoli-Pozzato coi loro collaboratori, 13 persone in tutto – stanno ancora scrutando il cielo, sperando che i prossimi giorni moltiplichino le quattro gocce di pioggia cadute in questi giorni: il problema è che la pioggia che cade oggi impiegherà almeno una decina di giorni a far ricrescere l’erba.

E così altri loro colleghi – dall’Altopiano alla Lessinia, dal Grappa al Nevegal – stanno già riportando in pianura parte del bestiame, lasciando oltre quota mille solo un numero di capi sufficiente a non perdere i finanziamenti europei riconosciuti a chi fa l’alpeggio. Qualche cifra può aiutarci a delineare la portata del problema e le sue implicazioni.

La desmontegada a Quero Vas, Belluno
La desmontegada a Quero Vas, Belluno

Le malghe nel Veneto, fra pubbliche e private, secondo l’ultimo report della Regione sono circa 700, molte delle quali peraltro inattive: tra il 1970 e il 2000, stando ai Censimenti dell’agricoltura, nella nostra regione si è verificata una riduzione di oltre un terzo delle aree prative nell’area montana; nell’alto Bellunese si supera addirittura il 60%.

Il terreno non gestito e lasciato ai rovi e agli arbusti costituisce uno degli inneschi più favorevoli allo sviluppo di incendi boschivi, e la montagna lasciata a se stessa prima o poi provoca gravi danni (esondazioni, in primis) anche alla pianura. Il 37% delle malghe è localizzato nella provincia di Vicenza, e di queste circa 120 sono sull’Altopiano; il Bellunese e la Lessinia ne ospitano 160 e 150, il Trevigiano poco meno della metà. Ogni malga può accogliere, per un periodo che va da giugno a settembre, in media 80 capi di bestiame, oltre a vitelli, pecore, asini e maiali.

E veniamo ai consumi di acqua: «Ogni vacca ne beve fino a 60-70 litri al giorno – spiega l’esperto asiaghese Gianni Rigoni Stern – abbeverandosi prevalentemente nelle pozze (quattro o cinque per malga) che raccolgono le acque piovane. Sono queste che in seguito alle scarse nevicate e alla prolungata siccità ora sono in buona parte secche».

Ecco dunque la necessità per i malgari di provvedere altrimenti, portando l’acqua in quota con le cisterne. Ovviamente i costi lievitano: il viaggio di un camion carico di 15 metri cubi d’acqua, con cui si dissetano 80 vacche per tre giorni, costa in media sui 200 euro; ma nelle malghe che producono formaggio o fanno agriturismo il fabbisogno di acqua cresce in maniera esponenziale.

Racconta Davide Nicoli, il 32enne gestore di malga Serona: «Ormai passo gran parte della giornata a portare in giro acqua col trattore, ho dovuto anche smettere di fare il formaggio e delegare l’attività a un collaboratore. E nonostante tutto qualche notte fa mi sono trovato le vacche attorno alla casara che muggivano disperate per la sete».

L’impressione, interpellando i malgari delle diverse aree prealpine, è che si proceda in ordine sparso, essendo venuto meno il coordinamento della Direzione Foreste della Regione, assorbita («decisione scellerata», dice Rigoni Stern) dal Dipartimento Ambiente.

In alcune zone gli interventi sono affidati alle autobotti dei Vigili del fuoco, in altre alla Protezione civile, che (come lamenta Giovanni Battilana, gestore di Malga Pat nel territorio di Borso del Grappa) offre gratis le prime due forniture di acqua, facendosi pagare dalla terza in poi.

In Lessinia invece sono venuti buoni gli invasi in cemento realizzati anni fa nel disgraziato comprensorio sciistico di San Giorgio per l’innevamento artificiale. In Alto Adige per dissetare le vacche in una malga isolata si è mobilitato persino un elicottero.

E non solo acqua: soprattutto nelle malghe più basse ed esposte al sole l’erba si è seccata e non ricresce e bisogna integrare il pascolo con costose razioni di fieno o di mangime portate su dalla pianura.

«Così i costi diventano insostenibili – denuncia il presidente dell’Associazione regionale allevatori Floriano De Franceschi, che in questi giorni sta visitando gli alpeggi – visto che agli aumenti delle materie prime non corrisponde un corrispettivo aumento dei prezzi di vendita del latte e dei formaggi. Non c’è da stupirsi se, come registra l’Istat, negli ultimi vent’anni il numero di aziende agricole si è più che dimezzato. Se la politica non compie delle scelte coraggiose, fra qualche anno rischiamo di trovarci senza cibo».

«Noi abbiamo sollevato il problema – aggiunge Nicoli – non per piangerci addosso, ma per far capire le difficoltà in cui si trova il mondo agricolo, mentre qualcuno indulge a lavarsi la macchina o riempirsi le piscine. Abbiamo avuto dai clienti un riscontro incoraggiante, ma purtroppo in generale non c’è nel consumatore la consapevolezza di cosa c’è dietro il cibo che gli arriva nel piatto».

La lezione del terribile periodo che stiamo vivendo è infatti che nulla di quello che fino a ieri poteva sembrarci scontato e poco costoso – dall’acqua dal rubinetto al pane sulla tavola – lo è per davvero, e che ogni scelta sbagliata, nei confronti della natura, ha un costo salato, che prima o poi dovremo pagare. —

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