«La saga armena continua»
Entro fine anno concluderà il secondo romanzo della trilogia
Sul portoncino d’ingresso, c’è ancora la sua buca delle lettere in ottone ossidato e la targa col cognome originario: Arslanian. Mai tolta da quando zia Enrica, la piccola Henriette del romanzo La masseria delle allodole, dopo una vita da esule in questa casa nel cuore di Padova, tornò a congiungersi Altrove con Sempad e Shushanig, i suoi genitori. «Ora un getto di sangue caldo schizzato fuori dalla testa del padre la bagna tutta...» Ma quella che la nipote Antonia ha trasformato nella «Casa di Cristallo», punto di incontro della vita culturale della città, non conserva traccia dell’orrore vissuto dalla zia, tutto è quieto ed accogliente: i divani circolari blu, le librerie alle pareti, sormontate dai dipinti ad olio dell ’800, le cornici con dentro i volti di famiglia, che il libro ha trasformato in testimoni della Storia. Antonia Arslan è in partenza per Erewan, capitale dell’Armenia, dove è stata invitata ad inaugurare «The golden apricot»: il festival cinematografico del Paese, durante il quale verrà proiettato fuori concorso il film dei fratelli Taviani tratto dal suo libro. Mentre racconta, la chiamano da tutto il mondo al telefono per parlarle del libro e del film e lei si concede affettuosa.
A che punto è col secondo dei tre romanzi che comporranno la saga della sua famiglia?
«Ho portato avanti la scrittura per tutto maggio, quand’ero negli Stati Uniti: all’estero sono più concentrata, meno assillata dal mondo esterno. Lavorerò spedita anche i prossimi mesi, tra Armenia e Grecia; se tutto andrà bene porterò a termine il racconto per fine anno».
Ha già in mente il titolo?
«Non ancora. Ho pronto quello del terzo, Autunno a Tudor City: quartiere armeno di New York che conosco bene. Ma non c’è niente di definitivo».
Abbiamo lasciato Sushanig ed i suoi 4 bambini in salvo dal genocidio. Cosa accadrà loro nel prosieguo del racconto?
«Sono ripartita dalle persone concrete, seguendo in parallelo gli stessi due filoni di storia della Masseria: da Isacco, Ismene e Nazim, che li avevano strappati alla morte e che per un intero anno ad Aleppo si prenderanno cura di loro, nascosti nella cantina di zio Zareh, fratello minore di mio nonno Yerwant. Poi, dopo l’impegno diplomatico per fabbricare falsi passaporti tedeschi e riuscire ad imbarcarli per l’Italia, di colpo, il vuoto. Come se, senza più niente da fare e nessuno di cui occuparsi, essi perdessero le ragioni stesse della loro vita. Ecco allora la scelta di Ismene ed Isacco di andare ad occuparsi di piccoli armeni disperati in un orfanatrofio siriano, mentre Nazim per un certo periodo fa il commerciante. Quando la guerra va male, Ismene, Isacco e l’orfanatrofio vengono trasferiti a Smirne, dove periranno tutti nel grande incendio del ’22».
E i sopravvissuti del nucleo familiare di Sempad Arslanian?
«Qualche mese fa all’Università di Padova ho letto in anteprima il brano della morte di Shushanig, avvenuta per crepacuore il giorno dell’imbarco per l’Italia con i figli. Sapendoli al sicuro, lei può finalmente lasciarsi andare e ricongiungersi al marito. Perché la mia è anche la storia di un grande amore coniugale: il più intrigante degli amori, anche se oggi non più tanto di moda. Sempad e Shushanig si amavano da morire, con l’uccisione di lui se n’era andata tutta l’allegria e la gioia di vivere di lei, sopravvissuta solo per i figli. In un giorno imprecisato del 1917, Arussiag, Nevart, Henriette e Nubar di soli tre anni sbarcano a Venezia; accolti da zio Wart, primogenito diciottenne di nonno Yerwant, che non aveva avuto cuore di andare loro incontro. Le ragazzine erano state violentate, avevano evitato la morte mangiando erba e sterco. Ecco la storia che mi affascina: com’è la sopravvivenza ad un genocidio? Quali le ferite insanabili? Quali riparabili? Quali i ricordi che possono emergere? Sono stata attenta alla retorica, perché per quante atrocità subisca, per me nell’essere umano prevale sempre l’amore per la vita. I piccoli esseri dalla vita spezzata entrano nel nucleo familiare di Yerwant, uomo di grande fascino e seduzione anche nella vecchiaia e di sua moglie Teresa Sartena, nom de plume di una famiglia nobiliare padovana già all’epoca economicamente decaduta: quella “santa donna” di mia nonna, dal carattere rigido, ma molto amata dai figli. Ed anche dal marito, aldilà di qualche “inspiegabile assenza” di lui dal contesto familiare».
Tutto questo rientra in una trama già impostata?
«No, quando mi metto a scrivere non so dove arrivo. All’inizio avevo pensato di costruirmi degli schemi ed invece sono i miei personaggi di carne e di sangue che mi guidano nel racconto. Ho in testa un quadro generale e provo emozioni fortissime di empatìa con i protagonisti: che hanno visto morire i loro cari e sparire il loro villaggio; che vivranno immersi in una solitudine terribile; che tenderanno a sposarsi tra sopravvissuti: come Arussiag, che a 50 anni trovò un marito armeno e si stabilì in una fattoria in California».
Da quanto tempo i personaggi del racconto le vivono dentro?
«Questa mia solitaria avventura in un mondo perduto è iniziata a 5 anni. Me ne sono sempre sentita testimone».
Dal 2004, data di pubblicazione della Masseria, come ha trascorso questi anni?
«Sono stati anni magnifici. La risposta del pubblico italiano è stata così affettuosa, partecipe, interessata... non potevo aspettarmi di meglio».
Secondo lei, perché?
«E’ accaduto che la gente ha avvertito la storia autentica e si è identificata nei suoi personaggi. Si è anche sentita tradita perché nessuno mai prima gliela aveva raccontata nella sua drammaticità».
Lei ha contribuito a evidenziare in ambito internazionale il problema della negazione del genocidio armeno da parte dei turchi, che sta mettendo a rischio l’ingresso di quel Paese nell’Unione europea...
«Gli intellettuali turchi si stanno muovendo compatti per risvegliare le coscienze dei concittadini, primo fra tutti il Nobel Pamuk. Il più grande quotidiano del Paese, il Keyf, 900.000 copie al giorno, ha pubblicato un’ampia intervista, in cui ho parlato del mio romanzo senza fare alcuna polemica. Ma ogni occasione è buona per gettare un sasso nello stagno».
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