La sfida dei produttori: «Con la vendita diretta prezzi tagliati del 40%»

Gli uomini della Cia (Confederazione italiana agricoltori) che da noi fanno intelligence ma sui prodotti dei campi, hanno intitolato la loro conferenza: «Speculazioni e caro prezzi. Di chi è la colpa?» Non solo, hanno allestito una bella coreografia: sul tavolo due mucchi di merce, due grosse fruttiere, una con i cartellini dei prezzi al consumo, l’altra con quelli dei prezzi al campo. Il problema è tutto qui: in negozio o al supermercato un chilo d’uva regina, quella con i grani color topazio, grossi come prugne ad un 1 euro e 39; pesche, frutto proibito a pensionati, operai, impiegati statali, a 1,99; le zucchine 1,29, l’insalata riccia 1,49 €/kg.


Nell’altro mucchio il prezzo al chilo degli stessi prodotti è di 30 centesimi di euro. Una bella forbice. A fare il punto della situazione il presidente della Cia, Daniele Toniolo e il vicepresidente Claudio D’Ascanio. La sera prima in tivù era stata diffusa una notizia sorprendente: la frutta e la verdura prodotta in Italia è a più buon mercato a Parigi e a Francoforte che nelle piazze di casa nostra. Ma come è possibile con un viaggio di migliaia di chilometri e con quello che costa la benzina e il gasolio? Vuol dire che c’è un cartello, vuol dire che qualcuno ci marcia rivendendo a peso d’oro quello che acquista per pochi spiccioli, o quasi. Insomma, di chi è la colpa?


Toniolo spiega che la colpa è della filiera troppo lunga: dal campo alla tavola ci sono almeno cinque passaggi e ad ogni passaggio il prodotto rincara, il prezzo si moltiplica come i chicchi di grano sulla scacchiera: 100 per cento, 200 per cento, siamo arrivati anche al 600 per cento. Negli interstizi di ogni passaggio ci sono i mediatori che, come i vigili urbani in mezzo al traffico, regolano i flussi di merce; ci sono i confezionatori che fanno il maquillage a frutta e verdura; i selezionatori della pezzatura. Dall’altra parte della barricata ci sono i Re Mida della borsa della spesa che vogliono le ciliegie a Natale. Meritano di essere spremuti. Ma, ai più, basterebbe una insalata due volte la settimana, del radicchio che non costasse come i tartufi. E’ possibile? E’ già un passo avanti la decisione a cui hanno aderito 70 comuni della provincia: il doppio prezzo. Cioè quanto costa a te consumatore e quanto costa la stessa pesca al campo, comprata direttamente dall’azienda agricola, una sorta di autodenuncia. Ma si può fare di più. Sta prendendo piede il «farm marketing», la vendita diretta dal produttore al consumatore.


«Questa formula che accorcia di colpo gli anelli della catena - dice Toniolo - garantisce un ricavo più equo al produttore e un risparmio del 30-40% per il consumatore». E allora diamoci dentro. «La vendita diretta dal campo alla tavola non copre mai più del 5%», avverte D’Ascanio, «anche negli Stati Uniti dove il sistema è molto rodato non si supera questa percentuale. Il motivo è semplice, solo alcune aziende agricole sono attrezzate al commercio. E qualche mese fa, quando abbiamo organizzato in Prato della Valle alcuni banchi per la vendita diretta del radicchio, i cittadini in due ore si sono portati a casa 30 quintali di merce».


«Si può fare di più - aggiunge Toniolo - l’Agrimercato può essere aperto in orario e in giorni fissati alla vendita al dettaglio. Per i cittadini sarebbe un grosso risparmio, un taglio dei prezzi del 40%. Ma abbiamo visto che l’esperimento fatto a Verona ha avuto un modesto successo. Quello che va fatto subito è un accordo. Comune e Provincia hanno già presentato la loro proposta, tra produttori e commercianti. Fissare un prezzo politico, come vorrebbe il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, mi sembra più una turbativa di mercato che una soluzione. Certo la vendita diretta dal campo alla tavola trova maggior spazio in un contesto di prezzi gonfiati e potrebbe fungere da calmiere».

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