La siccità siamo noi: diciamo sacro un fiume e poi trasformiamo il Piave in una fogna
Cogliamo di questa emergenza soltanto gli aspetti economici senza ammettere che l’acqua scarseggia. L’esempio? Abbiamo scassato le strade per mettere la fibra, non per rinnovare gli acquedotti
Ha cambiato i colori del paesaggio e dissecato le arterie dei fiumi. Siccità, la chiamiamo.
Un tempo sapevamo danzare per la pioggia o pregare per il suo arrivo. Benché fossero, entrambi, metodi inefficaci, ci davano l’illusione di possedere qualche strumento potente.
I satelliti e le televisioni, oggi, ci mostrano l’estensione del fenomeno e ci rendono coscienti che non abbiamo preghiere di tale portata.
Non siamo di fronte al mutamento di qualche refolo di vento, al vagare distratto di qualche nuvola. Negato e nascosto per decenni, ad opera di prezzolati dalle compagnie petrolifere, ora tutti stiamo facendo i conti con un clima che si rivela ostile, adattarsi al quale non sarà né facile né veloce.
Sarà costoso, sia in termini economici che umani.
Quando non sai anticipare i fenomeni i danni sono sempre maggiori.
Eppure abbiamo quarant’anni di dati sui cambiamenti climatici, sull’aumento dei fenomeni estremi, sulla violenza delle precipitazioni in alcuni territori e sulla desertificazione in altri.
Anche i ghiacciai ci raccontavano, da decenni, quello che sta accadendo e molti tra noi hanno solo saputo rispondere: imprevedibile.
Nei mari mutano le catene ecologiche all’aumentare della temperatura dell’acqua e noi ci sorprendiamo per le meduse che infestano le nostre spiagge.
Ogni cittadino onesto e informato può cogliere, però, la forza di queste scosse telluriche che frantumano abitudini e convinzioni.
La prima, tra tutte, è che non abitiamo un pianeta infinito, ma con risorse finite, cicli che vanno rispettati, a partire da quello dell’acqua.
L’acqua dolce non è infinita, ma solo il 2,5% dell’acqua totale. I 215 mila ghiacciai censiti non sono una riserva infinita di acqua allo stato solido, ma un conto corrente che si sta dilapidando.
Perché, comunemente, non colleghiamo i fenomeni tra di loro, non ne vediamo la struttura, l’evoluzione?
Perché esigerebbe un nostro salto culturale evolutivo, che non siamo ancora disposti a fare.
Della siccità stiamo solo patendo gli aspetti economici, a partire dalle filiere agricole, dando per scontato che le modalità di utilizzo della risorsa idrica siano efficienti e ciò che disturba sia solo la sua scarsità.
Le nostre reti civili perdono circa il quaranta per cento dell’acqua immessa e abbiamo visto sconvolgere le vie delle nostre cittadine per posizionare la fibra ottica e non certo per migliorare le tubazioni degli acquedotti.
Che non ci sia né una cultura dell’acqua né il dovuto rispetto per questa risorsa si dovrebbe capire dal fatto che usiamo acqua potabilizzata per il wc.
Nelle nostre terre c’è un ulteriore segnale che assume una certa forza rivelatrice.
Abbiamo attribuito al Piave, senza che ce lo chiedesse, l’appellativo di sacro.
Io, nato sulle sue rive, ne ho potuto vivere la vivacità biologica e la qualità delle acque che si è perduta decennio dopo decennio, trasformata in un liquido scuro per una larga parte del suo corso di pianura. Ancor peggio è successo alla rete di canali di bonifica diventati sentine melmose.
Ecco il peso che diamo alle parole e alle promesse: appena la storia gira l’angolo pieghiamo il territorio ai nostri interessi contingenti.
Perciò la siccità è ancor più grave quando risuona con la nostra siccità di valori e visioni. —
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