L'altalena rossa e la vita straordinaria di Mariacristina Gribaudi

VENEZIA. Mariacristina Gribaudi è una donna che ce l’ha fatta. Amministratrice unica della fiorente azienda Keyline di Conegliano, nel Trevigiano, eredità della famiglia Bianchi – chi non ricorda la storica Silca – che produce chiavi e macchine duplicatrici; dal 2016 presidente della Fondazione dei Musei Civici di Venezia, motore, quindi, della recentissima mostra dedicata a Tintoretto; sportiva, «maratoneta» spiega «proprio per sopravvivere a tutto». E madre di sei figli che sta tirando su, alcuni oramai sono adulti, con l’abilità di una coraggiosa funambola.

Per i suoi primi 60 anni, Gribaudi ha deciso di raccontarsi, a quattro mani con il giornalista Adriano Moraglio, in un piccolo libro autobiografico scritto per Rubbettino editore. Il libro si intitola “L’altalena rossa” e per la sua autrice è già cominciata la girandola delle presentazioni, a cominciare dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove si è laureata in Economia.

Quello che Mariacristina Gribaudi ha saputo creare, insieme al marito Massimo Bianchi con il quale si alterna alla guida dell’azienda, è un interessante modello gestionale di welfare acquisito in nuce dai genitori piemontesi, Anna Maria e Carlo, fondatore negli anni Settanta della Mareno Grandi Cucine (venduta nel ’96), e dai nonni a loro volta imprenditori. Famiglie sabaude, di moralità inflessibile, laiche, aperte alla cultura e intrise di una profonda etica della morigeratezza. Dove le donne avevano un ruolo di primo piano accanto ai mariti, dividendosi con fatica, ma anche con una dose di invidiabile disinvoltura, tra il lavoro e le famiglie numerose.
L’altalena rossa del titolo, invece, è quella sulla quale Mariacristina bambina amava dondolarsi, un’abitudine, racconta, che ha sempre mantenuto come piccolo rito personale.
«Ho scritto questo libro perché tante volte mi è stato chiesto di raccontarmi, soprattutto da parte dei ragazzi» dice «in effetti mi sento giovane, faccio tantissimo sport da sempre. In 60 anni ho fatto una marea di cose. Il fatto stesso di avere sei figli e di avere avuto per casa sempre tanti giovani, mi aiuta a vedere le cose da angolature diverse. Anche con gli amici dei miei figli sono sempre stata una mamma che accoglie con leggerezza. È stato facile, poi, riportare questo stile nell’ambiente di lavoro dove porto regole, rispetto dei ruoli e delle abilità. Devo dire che anche per questo motivo non mi sono mai identificata totalmente con l’azienda».
Il libro racconta i 60 anni di vita della Gribaudi, dall’infanzia a Usseglio, vicino a Torino, ad oggi. Anni attraversati da molti cambiamenti: il trasferimento in Veneto, la perdita tragica di un giovane fidanzato, due matrimoni, i figli, le imprese, la crisi economica, la ripresa.
Emerge il racconto di una genealogia di imprenditori partiti in Piemonte dal basso, tutti intuizione e dedizione al lavoro, e poi cresciuti sull’onda del boom. Ma anche di una linea femminile di figure forti, madri e lavoratrici, modelli per le donne a venire. Come quando mamma Anna Maria torna in fabbrica, fresca del quarto figlio, e per poterlo allattare chiede a una Gribaudi bambina di “tirare su le tapparelle di casa come segnale” quando il neonato si sveglia.
«Ho avuto una nonna materna che lavorava nelle cave di marmo, l’altra nonna in bottega col nonno» aggiunge «poi mia mamma. Per me è normale. I nonni hanno sempre supportato le mogli che erano brave in famiglia e quindi anche nella gestione della fabbrica». Poi il grande senso etico dei capostipiti, l’amore per il sapere, l’idea della fabbrica come condivisione di un progetto. Idee molto olivettiane.
Toccanti le pagine che ricordano la prigionia in campo di concentramento di Carlo Gribaudi durante la guerra. «In mio padre era forte il concetto di morigeratezza» aggiunge «il grande senso del risparmio. Ha letto fino all’ultimo libri e i giornali. Per lui era fondamentale che anche gli operai leggessero il giornale, anche durante l’orario di lavoro. Non la considerava una perdita di tempo. Da mio padre ho imparato che lui come sopravvissuto doveva creare posti di lavoro, l’idea della restituzione agli altri». Con questo spirito, spiega, ha accettato («a titolo gratuito») l’impegno con i Musei Civici di Venezia: «Adesso la Fondazione è in attivo. La differenza? La stanno facendo le persone».
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