Le larghe astensioni per l'intesa di governo

L'editoriale del direttore: davvero è possibile immaginare una nuova alleanza?

Davvero è possibile immaginare una alleanza organica, capace di sommare in un governo e in un programma le rappresentanze parlamentari di due forze politiche così diversamente connotate nei rispettivi blocchi sociali?

Forse la soluzione di questo rebus, che sta nelle mani del presidente Sergio Mattarella, può essere illuminata dal precedente inquilino del Quirinale. Lunedì 8 aprile 2013 l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha citato durante una commemorazione il governo italiano che si formò nel 1976, sostenendo che «ci volle coraggio per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà». E tanti esegeti del pensiero di Napolitano videro allora un riferimento alla crisi politica uscita dal pareggio tra Bersani e Berlusconi. Napolitano richiamava la nascita del terzo governo Andreotti, avvenuta nell’estate del 1976, che sarebbe durato fino al febbraio 1978, passato alla storia come il “governo della non sfiducia” o “delle astensioni”.

Fu lo stesso Andreotti ad affermare alla Camera quanto segue: «Ho pertanto proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati». L’Andreotti III ottenne il voto da 258 deputati su 630, con 44 no e 328 astenuti; al Senato i favorevoli contavano 137 schede su 315, con 17 no e 161 astenuti. Nacque un governo monocolore Dc, retto in realtà dal negoziato permanente tra Giulio Andreotti e Enrico Berlinguer.

Non troverei alcunché di sorprendente, se andassimo incontro a un governo di “larghe astensioni”. Il centrodestra unito può rivendicare di essere la coalizione più ampia. Il M5S può argomentare di essere di gran lunga il primo partito. E vedremo dunque chi è davvero Matteo Salvini: se è l’abilissimo arruffapopoli che si è imposto sulla scena oppure il politico serio e pragmatico descritto da tanti suoi colleghi dell’europarlamento. Vedremo se sarà capace di essere il cardine di un nuovo governo, in grado di reggersi su “larghe astensioni” e in primis di raccogliere la “non sfiducia” dai banchi del Partito democratico (mutatis mutandis, come avvenne per il Pci verso l’ala più destrorsa della Dc, appunto la corrente andreottiana). Che Salvini si accomodi a reggere la coda di Di Maio mi appare più arduo e pare probabile men che meno che si faccia tagliare fuori da un (improbabile) asse M5S-Pd (anche in questo caso peraltro con la formula della “non sfiducia”). A questi scenari non mancano ovviamente tante e serie obiezioni. Per esempio il fatto che Salvini premier è un calice amarissimo da trangugiare per i parlamentari Pd. Se il candidato si chiamasse Luca Zaia, la pozione apparirebbe meno venefica. Difficile che Salvini voglia cedere l’occasione della vita al governatore veneto. Vedremo.

Ma vi sono un paio di certezze cui ancorarsi: un governo va celermente costruito, lo pretendono mercati finanziari e elettori; nessun parlamentare di nessuno schieramento ha la minima intenzione di tornare alle elezioni domani.

Una cartina di tornasole chiara delle alleanze e delle trame in fase di tessitura la avremo fra tre settimane, quando dovranno essere eletti i presidenti di Camera e Senato. Se il prossimo presidente di uno dei due rami del Parlamento fosse un esponente del Pd, dovremmo immaginare che un qualche accordo sia stato imbastito. Del resto, la stessa orrida legge elettorale chiamata “rosatellum” è nei fatti esito di un accordo tra Pd, Forza Italia e Lega.

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