Le storie dei veneti guariti dal Coronavirus: andata e ritorno dall'inferno

Sono morti in molti, è vero. Troppi. Negli oltre tre mesi di angoscia che ci hanno accompagnati anche in Veneto, dal primo decesso italiano a Vo' nel Padovano a quel due giugno che per la prima volta non ha registrato vittime, abbiamo capito tante cose. Alle volte è la grinta, la capacità di sopportazione, la tempra come si diceva una volta. A volte, c'è qualcuno che ti prende per i capelli e di tira indietro proprio metre, consapevole o no, stavi precipitando nel baratro. Altre volte è solo questione di fortuna, di cabala, di fede: declinatela come volete.
A questo link trovate Memorie, il nostro memoriale online per ricordare chi non c'è più. Probabilmente non saranno tutti, ma sono tanti, tantissimi. Abbiamo ricostruito le loro storie, i loro volti. In molti casi, ci hanno aiutato i loro parenti, o gli amici.
Qui sotto, una selezione di racconti, di storie di chi ce l'ha fatta. Sono i guariti. Hanno diverse similitudini, ma anche parecchie differenze.
Piero, dalla finestra vedeva il muro dell’ospedale con il cartello “andrà tutto bene”

Sorseggia l’aperitivo al tavolo di un caffè, in piazza delle Erbe, nella mattinata della domenica che precede il ritorno alla quasi normalità, ed è come assaporare la vita. Sono trascorse dodici settimane dal 7 marzo, vigilia del lockdown che ha messo l’Italia in quarantena.
Quel giorno il dottor Piero Togni, 74enne ex imprenditore nel settore dei prodotti diagnostici e una casa a Città Giardino, era stremato da un febbrone a 39 gradi e mezzo: mai avrebbe pensato di essere una delle vittime del coronavirus che gli ha presentato un conto salato (28 giorni di ricovero costati oltre 10 chili di peso e il consenso a un trattamento terapeutico dagli esiti, allora, tutti da verificare), lasciandogli intatti buonumore e ironia e, in eredità, una profonda fiducia nella scienza medica e nei suoi operatori.
«Non ho mai avuto paura, neanche per in istante. Ero in un ambiente circondato da persone straordinarie che mi hanno rassicurato. Io lavoravo nel settore e non avevo dubbi sul nostro sistema sanitario. Ma ora l’ho visto con i miei occhi: la gestione della struttura ospedaliera, in cui sono stato tanti giorni, era eccezionale: non so quante ore lavorassero quotidianamente medici e personale infermieristico... erano stremati, direi frolli. Penso che la politica debba avere massima attenzione alla sanità, è fondamentale. Dopo questa esperienza ho dato il 5 per mille allo Stato per il servizio sanitario. C’è da dire una sola parola: meritano».
L’imprenditore non sa come sia stato contagiati: «Non lo so davvero. Avevo da tre, quattro giorni la febbre molto alta e una grande spossatezza... Mia moglie ha sentito una carissima amica, la dottoressa Teresa Ruzzena, che è stato mio medico di base, e in ambulanza sono stato trasferito direttamente agli Infettivi dove mi è stato fatto il tampone. Poco dopo la notizia: “è positivo, la teniamo qua”».
Piero Togni non si è perso d’animo: «Non mi sono spaventato o preoccupato, ero un po’ perplesso. Mi hanno fatto firmare una carta per essere autorizzati a utilizzare prodotti come l’antivirale per l’Hiv». Passano altri 4, 5 giorni e arriva il trasferimento nell’Ospedale Covid di Schiavonia.
«Non l’ho più visto dal ricovero» ricorda la moglie, Luisella Traini, «Le informazioni erano limitatissime; c’era un medico a Schiavonia che rispondeva alle telefonate dei parenti un’ora a settimana... La linea era sempre occupata e l’operatore spesso era devastato per i continui ricoveri. È stato terrificante, cercavo di organizzarmi la giornata per tenere occupata la mente: curavo la casa, facevo ginnastica... Abbiamo fatto un’unica videochiamata perché mio marito non se la sentiva. E io per l’occasione mi sono vestita, truccata, ho messo anche gli orecchini» rammenta con commozione.
Continua il dottor Togni: «La cosa terribile è che non avevo fame, zero appetito. In 28 giorni ho perso una decina di chili. Era molto fastidioso non solo non avere fame, ma non sentire né un odore né un sapore... Avrei potuto mangiare qualsiasi cosa senza percepirne il gusto».
Le giornate trascorrevano dentro la camera (vietato uscire) condivisa «prima con un 96enne che si preoccupava per i suoi animali e voleva andare a mungere le mucche, poi con un simpaticissimo 50enne monselicense con il quale sono rimasto in contatto: ci dobbiamo incontrare».
La mascherina con l’ossigeno era a portata di mano, «l’avevo accanto al letto per metterla al bisogno. Con mia moglie ci sentivano al telefono... Dalla finestra vedevo il muro dell’ospedale con il cartello “andrà tutto bene”. Oggi devo solo ringraziare medici e infermieri sempre lì, pronti ad accudirmi. Non mi sono mai sentito solo. Entravano tutti bardati e sembravano un po’ dei mostri ma sono stati bravissimi, mi hanno seguito come fossi un loro familiare». Le dimissioni l’1 aprile con l’isolamento fiduciario. Finalmente il doppio risultato: negativo e ancora negativo. «È stata un’emozione grande» ammette Piero, mostrando il referto che tiene nel portafoglio, «Ora esco 3, 4 volte al giorno. Ho la necessità di riprendere contatto con la vita». —
(Cristina Genesin)
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Federico il Nonno Coraggio che ne esce a 85 anni e vuole andare dal barbiere

Quando gli amici lo hanno rivisto finalmente a camminare in città lo hanno festeggiato come un “revenant”. Un redivivo a 85 anni, Federico Boem, noto come “nonno coraggio” per il suo lavoro di guardiaparchi a San Donà, è sopravvissuto anche al coronavirus.
Più di un mese fa una bronchite lo aveva colpito all’improvviso, poi il ricovero all’ospedale di Portogruaro. Primo tampone negativo e infine il responso impietoso: Covid-19. Boem è stato trasferito subito al Covid Hospital di Jesolo dove è rimasto ricoverato per quasi un mese. Ma è guarito ed è tornato a passeggiare e salutare gli amici al bar Tiffany in piazza Indipendenza. Adesso andrà a farsi tagliare la chioma insolitamente lunga dal barbiere Corrado che ha una lunga lista fino a giugno.
La sua esperienza è stata davvero difficile. «Dopo quella bronchite», racconta, «sembrava fosse tutto a posto, ma evidentemente ho contratto il virus e nel giro di poche ore ero ricoverato a Jesolo nel reparto covid, in una camera completamente da solo. Avevo sì la televisione e poi medici o infermieri che entravano bardati con le tute per somministrarmi le cure. Il personale è stato molto serio e preparato».
«In tv non si parlava altro che del tremendo virus», continua Boem, che è originario di Eraclea, «della tanta gente che moriva nei letti di ospedale. È stato tremendo. Ma ho cercato di farmi coraggio anche se ero stanco e senza appetito. C’erano le telefonate di mia moglie e le mie figlie, i parenti, gli amici che mi davano forza. Ho avuto anche paura, ma adesso sono guarito anche se ho perso 10 chili. E penso a chi purtroppo non ce l’ha fatta. Il Covid è una sciagura per l’umanità e deve far riflettere le persone, i governanti i politici su quanto siamo fragili. Dobbiamo collaborare tutti adesso, cercare una cura e il vaccino e aiutare chi ha perso il lavoro. Lo dobbiamo alle generazioni future, confidando che questa avventura serva da monito». —
(Giovanni Cagnassi)
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Valentina, l'appello su facebook ai giovani: siate responsabili, la vita è una sola

Sorride sempre Valentina. Mentre affronta le rapide di un canyon sul Garda, quando fa da timoniere a una barca che solca il mare dell’isola d’Elba. Anche quando si trucca le guance di rosso e va a portare una risata ai bambini della Pediatria di Conegliano insieme agli amici della Lilt. Sorride alla routine del lavoro in ufficio nel municipio friulano di Chions e quando allena i ragazzi del minivolley e della formazione Under 12 della Pallavolo Motta di Livenza. Era il mese di marzo quando il sorriso di Valentina si è offuscato.
«Mi è salita la febbre, sapevo in cuor mio che era il coronavirus, c’erano stati dei precedenti tra i miei colleghi», racconta Valentina, che di cognome fa Rubert, ha 37 anni e vive a Mansuè. «Io sono stata fortunata, altri no».
La sua storia è un segno positivo in mezzo a tanto dolore. Il Covid-19 è stato feroce nella Marca, ha ammalato 2.650 persone e spezzato 306 vite umane. Ma non è riuscito a spegnere Valentina e la sua gioia di vivere. Per questo ieri lei ha voluto lanciare un appello su Facebook, invitando tutti i giovani ad essere responsabili, a divertirsi rispettando le regole per evitare di far del male a se stessi e agli altri.
«Vi chiedo un po’ di sacrificio: usate mascherina, guanti e igienizzante per tenere lontano il virus, evitate di creare assembramenti come quelli che ho visto in questi giorni in molte città. So che è un momento difficile e che tutti vogliono uscire per vedere gli amici, ma dobbiamo stringere i denti per noi, per i nostri cari, per chi ci vuole bene. Vi assicuro che ammalarsi è un’esperienza dura, anche per chi vi ama e non può starvi vicino. Allora cerchiamo di salvarci tutti insieme».
Valentina si è salvata grazie alle cure dei medici dell’ospedale Ca’ Foncello dove è stata ricoverata per 20 giorni, sette in Terapia Intensiva e tre intubata. «Ragazzi, l’unica cosa che vi posso dire è che questo non è un virus che colpisce solo gli anziani e i più deboli. Io ne sono la riprova: sono una sportiva, da 25 anni gioco a pallavolo e non avrei mai immaginato che l’infezione mi colpisse in maniera così potente. Non credete a chi vi dice che è solo una banale influenza».
Riavvolgendo il nastro Valentina torna con la mente tra i monitor dell’ospedale, intenta a lottare contro la polmonite acuta. «Per fortuna i giorni in cui stavo troppo male non me li ricordo. La mancanza di ossigeno mi provocava stanchezza, non ero sempre cosciente, ho come dei vuoti di memoria, ho dimenticato i tre giorni in cui sono stata intubata».
La paura le ha fatto da compagna discreta. «Non temevo per quello che poteva accadere a me, l’unica paura che avevo era quella di far soffrire la mia famiglia e i miei amici».
Il primo ricordo che affiora più nitido è il momento in cui è tornata a respirare senza essere appesa a un macchinario. «Quando mi hanno estubata ero in Terapia Intensiva, avevo appena riaperto gli occhi, attorno a me i medici e gli infermieri. Sono stati fantastici: nonostante i tanti ammalati da seguire, avevano sempre un momento per rincuorarmi». Hanno fatto da ponte tra lei e la sua famiglia: mamma Carla, papà Silvano e la sorella Stefania, tutti pregavano e speravano per lei a casa.
«La cosa più brutta del coronavirus è che ti impedisce di avere accanto gli affetti. «I miei familiari venivano chiamati una volta al giorno dai medici per aggiornarli sulle mie condizioni di salute. So che per loro è stato drammatico aspettare quella telefonata».
Le ore non passavano mai, l’orecchio sempre teso per correre a prendere il telefono al primo squillo. «Finché non si viene toccati a livello personale la gente non pensa, non dà peso alla pandemia, invece è proprio su questo punto che tutti dobbiamo insistere e dimostrarci responsabili ed educati» aggiunge Mario, lo zio di Valentina, orgoglioso di averle trasmesso la passione per la pallavolo.
La mattina della dimissione gli occhi si sono fatti lucidi. «Mio papà è venuto a prendermi in ospedale, io abito da sola, mia mamma e mia sorella erano a casa ad aspettarmi, per sicurezza siamo rimasti a distanza per altri venti giorni, anche se ero già negativa al virus». Gli amici con cui ama condividere viaggi e avventure, e i ragazzi del volley, l’hanno letteralmente invasa di affetto. Decine di messaggi e chiamate. «Mi mancano tutti moltissimo, non vedo l’ora di poter tornare ad allenare».
Valentina è rientrata al lavoro, sta facendo gli ultimi controlli medici, ha scritto una lettera di ringraziamento al direttore dell’Usl 2 e al personale del reparto Udie che si è preso cura di lei. Passo dopo passo, sta conquistando la sua nuova vita.«Questo virus mi ha insegnato a dare nuovo valore al tempo, ad apprezzare i piccoli gesti che di solito diamo per scontati». Non ha ancora pensato a quale sarà la sua prossima tappa. Se chiude gli occhi sogna di essere su una barca a vela, nella distesa infinita del mare. In compagnia del vento e di tutte le persone che le vogliono bene. «Voglio tornare a respirare a pieni polmoni».
(Valentina Calzavara)
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Lanfranco, l'infermiere infettato che vuole accendere un cero al Santo

Lanfranco Mazzon non è uscito dall’ospedale da solo. Da quando è stato dimesso, un’ombra lo accompagna nelle sue giornate. Una compagnia che, a volte, sembra più tangibile di quel doppio tampone negativo che pure un mese fa ha sancito la sua guarigione dal Covid-19.
«Temo per il futuro» racconta l’infermiere, 62 anni, di Este, un tono pacato che rivela un’indole tranquilla alle prese suo malgrado con tutte le sfumature della retorica dell’eroismo, prima combattente in trincea in un reparto Covid, a Schiavonia, quindi solo faccia a faccia con la malattia, in un tira e molla tra la vita e la morte durato un mese: «Oggi sto abbastanza bene, ma ho paura delle conseguenze che potrebbero presentarsi a distanza di tempo, anche di anni» rivela «come la fibrosi polmonare».
Il coronavirus ha giocato a nascondino con Lanfranco: al lavoro nel reparto in cui sono stati registrati i primi due casi di contagio, quindi a contatto con i pazienti Covid che sono venuti in seguito. Fino a metà marzo quando, malgrado l’attenzione scrupolosa nell’assistenza, il virus si è fatto strada deflagrando nel suo organismo e conducendolo in un luogo di incoscienza privo di memorie.
Un mese di ricovero, di cui otto giorni intubato in Terapia Intensiva «dei quali per fortuna non ricordo nulla», una battaglia che gli ha restituito un fisico in buono stato e uno spirito un po’ ammaccato. A casa ad attenderlo c’era la moglie Tamara «non riusciva a darsi pace, aveva il terrore che non ce la facessi» aggiunge «adesso che sono tornato lei è tranquilla, di sicuro più di me».
I cambiamenti che si sono insinuati nella sua quotidianità sembrano impercettibili, come un’ombra intercettata distrattamente con la coda dell’occhio, appunto, al punto che dopo un po’ ti domandi se quello che hai visto, o vissuto, fosse reale. Non fosse per quei piccoli particolari che penetrano in profondità e non lasciano spazio a equivoci.
«Sono tornato a casa con una leggera tachicardia, un regalo del Covid» racconta «e in futuro dovrò tener controllato il cuore, tra qualche mese dovrò fare una Tac cardiaca per assicurarmi che non ci siano ostruzioni alle coronarie» racconta Mazzon che poi aggiunge «prima di ammalarmi riuscivo a fare 15 flessioni l’una dietro l’altra, ora non ce la faccio più» sorride cercando di minimizzare quel nuovo piccolo indizio che conferma che non si è trattato solo di un incubo. «Continuo a fare ginnastica per la schiena, me l’hanno insegnata i fisioterapisti quando ero ricoverato, sono esercizi semplici che ora posso fare anche da solo».
Così Lanfranco viene a patti con una vita fatta di tempi più lunghi e di una maggiore lentezza che rappresentano comunque una conquista, ora che quella debolezza estenuante è passata: «Sto cercando un po’ alla volta di tornare alla normalità, faccio qualche lavoretto leggero in casa, mi dedico all’orto, taglio l’erba, piano piano» dice. Nel ritorno alla normalità c’è anche il rientro al lavoro, a suo modo una sfida che porta con sé tanti sentimenti contrastanti, l’amore per una professione svolta da 28 anni e «l’aver capito di averla scampata bella».
«Il periodo di infortunio scade alla fine del mese, poi credo che farò un po’ di ferie, a casa in assoluta tranquillità e, alla fine, tornerò in ospedale, ma non sarà certo in un reparto Covid» assicura, lasciando filtrare il brivido che la sola idea gli provoca «prima dell’epidemia che ci ha dirottati tutti sul coronavirus, lavoravo in Medicina ed è lì che vorrei tornare, sinceramente non ho più alcuna voglia di avere a che fare con alcun tipo di malattia infettiva».
Prima di tornare a Schiavonia c’è tuttavia una cosa che Lanfranco si è riproposto di fare: «Tra qualche giorno vorrei andare al Santo» rivela «sento di aver più di qualche cero da accendere sulla sua tomba. Ho sempre avuto fede, ma non sono mai stato un assiduo praticante. Però ora come non mai credo sia il momento di rendere grazie per quello che ho ricevuto».
Una seconda possibilità che altri non hanno avuto: «Vedo i ragazzi in piazza che si ritrovano e stanno insieme incuranti delle regole di sicurezza» conclude «e li capisco, penso che al loro posto probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo, perché so che quando sei giovane sembra che nulla ti possa toccare. Il problema è che non è così e te ne accorgi sempre quando è troppo tardi. In questo caso basta veramente un nonnulla. Ed è fatta, sei dall’altra parte».
(Simonetta Zanetti)
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Mario, che dopo due terremoti e l'amianto non si è fatto spaventare dal Covid

Mi dicevo «forza Mario, devi farcela e ce l'ho fatta: sono sopravvissuto a due terremoti, sono stato operato a un polmone per colpa dell'amianto e vuoi che non superi anche il coronavirus?».
Mario Gomiero, 63 anni, dopo la grande paura, il ricovero, l'isolamento durato qualche giorno, è tornato a casa dall'ospedale San Giacomo di Castelfranco. «Non lo nascondo, ho avuto paura, non era una passeggiata». Ma ora l'ex vetraio, pensionato da qualche anno, si gode la sua casa di via Giorgione, vicino al centro di Resana.Come è iniziato?«Da qualche giorno non stavo bene, febbre. Poi venerdì 12 marzo, visto che gli antibiotici non davano nessun beneficio, mi sono deciso ad andare al Pronto Soccorso, specie dopo aver visto che avevo le unghie di color blu: mancanza d'ossigeno».
«Il mio stato d'animo non era dei migliori e poi vedere tutto quel personale medico bardato, sempre pieno di lavoro, di fretta ma sempre con una buona parola di conforto: mi metteva ancora più angoscia, tanta angoscia. Subito mi hanno fatto il tampone e nel giro di mezzora sapevo che ero positivo. Mia moglie di tutta fretta è stata mandata a casa e io sono stato portato in isolamento per due lunghissimi giorni. Avevo solamente il telefono per avvisare tutti quelli con cui negli ultimi giorni ero stato a contatto. Intanto mia moglie Fabiola e mia figlia Irene avevano iniziato la quarantena».
Provavi dolore fisico?
«Solo affaticamento nel respirare e qualche dolorino al fegato, per effetto di tutti i farmaci che ti somministrano. Farmaci sperimentali per rallentare il virus, ma ti fanno firmare per accettare la cura del tipo: mangia sta minestra o salta la finestra».
E poi, Mario? «La paura, l'angoscia che avevo i primi giorni un po' alla volta si è attenuata. Soprattutto perché non avevo più bisogno di essere costantemente attaccato all'ossigeno e tanto meno mi avevano intubato. Ed il terzo giorno mi hanno spostato, ero in camera con un altro paziente, un medico dello stesso ospedale; poi ero in stanza con due di Resana, che come me sono guariti tornati a casa».
E il personale medico e paramedico? «Posso dire che nella quindicina di giorni che sono stato ricoverato non so da chi sono stato curato. Tutti gentili, tutti cercavano di farti stare tranquillo, ma io non li ho mai visti in faccia: solo dopo qualche giorno capivo che il tale era quello che c'era qualche giorno prima. Tutti incappucciati con le mascherine, grembiule e visiere... ma erano sempre presenti, non tardavano mai a venire in stanza a somministrarti il farmaco e controllarti».
Tornato a casa, qual è stata la prima impressione? «Essere rinato, altre volte sono stato ricoverato, questa volta è diversa, è più "tosta", si percepisce che è una cosa nuova, da non sottovalutare. Capisco ancora di più che bisogna stare a casa».
(Dario Guerra)
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Ada, la "sopravissuta" più guarita d'Europa: ne è uscita indenne a 104 anni

È trevigiana la persona più anziana d'Europa - forse del mondo - ad essere guarita dal coronavirus. È Ada Zanusso, classe 1916, nata a Vallio di Roncade.
La sua storia di speranza e tenacia, nelle ultime ore, ha fatto il giro di tutti i continenti: all'età di 104 anni ha sconfitto il virus. Lo stesso che nella casa per anziani in cui risiede da tempo, in provincia di Biella, ha mietuto molte vittime.
Residente dalla fine degli anni '40 nel Biellese, dov'è tutt'ora, Ada il 17 marzo era risultata positiva al tampone al Covid-19. Nelle ultime due settimane, invece, curata nella stessa struttura, è tornata completamente in salute. Per la gioia dei figli e della sorella Solidea, 97 anni, che abita a San Donà di Piave.
«Mia madre è fiera di essere trevigiana e veneta e porta nel cuore la sua terra d'origine, ce ne parla spesso» è la testimonianza di Giampietro Brisotto, figlio di Ada. È lui stesso ad aver dato per primo la notizia della guarigione della madre, legata indissolubilmente alla Marca e, in parte, al Veneziano. Assieme al marito Angelo Brisotto, nato anche lui a Vallio - ma nel 1911 - e mancato nel 2000, si trasferirono nel 1947 in provincia di Biella, alla ricerca di maggiore stabilità.
Si erano sposati tre anni prima - il 19 febbraio 1944 - nella "loro" Vallio. Angelo trovò presto impiego come operaio, Ada si dedicò completamente alla famiglia, ai quattro figli - due dei quali nati a Fossalta di Piave - e alla cura della loro nuova casa di Mezzana Mortigliengo.
«Ma ha sempre ricordato e ricorda tutt'ora le proprie origini: d'altronde, oltre alla sorella di mia mamma, a San Donà abbiamo altri parenti tra Vallio, Monastier e Fossalta di Piave» spiega Giampietro, «Uno degli episodi che ci racconta spesso, legato alla Marca, è un suo ricordo d'infanzia. In braccio a mia nonna, in un ospedale da campo della Prima guerra mondiale, ricorda di aver visto un personaggio spronare uomini e soldati: era il generale Armando Diaz».
Ada è un'anziana lucida, profondamente credente, che ama leggere ed informarsi. Piccole passioni che continua a coltivare ora, guarita dal coronavirus. Non ha mai mollato. Nel giro di una settimana, assistita nella stessa residenza per anziani in cui si era voluta recare di sua spontanea volontà a 99 anni, dopo la rottura di un femore, è tornata in salute.
«Sta bene, è tornata arzilla come prima», aggiunge il figlio Giampietro, «Ci sentiamo per telefono e addirittura per videochiamata. Mia madre d'altronde ha un carattere fiero, vivace e curioso. Una delle prime cose che mi ha detto una volta guarita? Mi ha chiesto cosa stesse succedendo nel mondo». Un mondo che ora ha una storia positiva in più da raccontare.
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Davina Prioli, l'insegnante di Cittadella che per prima cosa ringrazia tutti
Il Coronavirus isola le persone positive dalle famiglie e le lascia sole, ma Facebook consente a chi ne ha l’energia di condividere e raccogliere l’affetto, sia pur virtuale. Continua a raccontare il suo decorso ospedaliero, con stile impeccabile, la professoressa Davina Prioli, storica insegnante di matematica del liceo scientifico Tito Lucrezio Caro di Cittadella. La prof, che vive a Rossano, al confine con Galliera, nei giorni scorsi ha annunciato di essere positiva al Covid-19.
Ora non ha più bisogno del respiratore e ha aggiornato i tanti amici dei social, tra cui centinaia di studenti: «Ho lasciato la rianimazione a chi è più in difficoltà di me», scrive. E poi confida la situazione che migliaia di persone stanno attraversando in tutto il mondo: «L’esperienza che ho vissuto vedendo le persone in sofferenza respiratoria e intubate ti lascia un segno di pietas nel profondo dell’animo. Ringrazio il personale di tutta la rianimazione e tutti coloro che, protetti in quelle tute, sono sempre a nostro servizio».
La docente, ora in pensione, è tra le persone che hanno lasciato il day surgery di Cittadella, che era stato attrezzato di fatto come una seconda terapia intensiva, ricavando sei posti letto. I pazienti più gravi sono stati trasferiti a Schiavonia, centro di riferimento per la cura. Per Prioli, fortunatamente, lo spostamento nella Bassa Padovana non si è reso necessario. «Ora non sono più a Cittadella perché hanno chiuso il day surgery e mi hanno portato nell’ospedale di comunità di Camposampiero», puntualizza, «mi trovo al settimo piano dove siamo in dieci ammalati seguiti con attenzione e sensibilità da un personale altamente preparato».
Nelle ultime ore le condizioni sono migliorate gradualmente e Prioli ha finalmente potuto dare alcune buone notizie a chi le scrive e la incoraggia costantemente: «Respiro da due giorni senza alcun supporto di ossigeno e l’ossigenazione è 95. Ho avuto l’esito di due tamponi in due giorni consecutivi, entrambi negativi. Ora mi sento meglio, ma stanca a causa della polmonite».
Nelle sue parole c’è la riconoscenza verso persone che forse non scrivevano alla prof da chissà quanto, o che non sentiva dai tempi dei banchi di scuola, e che hanno sentito l’urgenza di trasmetterle affetto e sostegno: «Un particolare grazie e una riconoscenza a tutti gli operatori della sanità. Grazie a voi che fate il tifo per me. Vi abbraccio tutti virtualmente e di ognuno di voi c’è un ricordo personale».
L’ospedale di comunità è pensato per accogliere chi lascia le strutture sanitarie per acuti ma non è in condizione di essere adeguatamente assistito a casa; i posti letto nella realtà di Camposampiero sono in tutto 15, la struttura consente di accompagnare verso le dimissioni chi ha superato la fase critica della malattia. —
(Silvia Bergamin)
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Marcella Bellato e Ubaldo Pamio, coniugi di Scorzé: "Un miracolo"

Questa storia fa rima con speranza, rinascita, fiducia. La stessa cui stanno cercando di aggrapparsi centinaia di pazienti e i loro familiari. C’è chi ce l’ha fatta e, senza tanti giri di parole, giura si tratti di un miracolo.
Loro sono Ubaldo Pamio e Marcella Bellato. Sono marito e moglie, hanno l’uno 80 anni e l’altra 73. Abitano a Scorzè. Sono sposati da una vita e non si sono mai separati. Sono guariti dal Covid-19 e, dopo venti giorni da incubo, possono tornare a sorridere. E, con loro, i parenti, perché in quarantena ci sono finiti anche i figli Danilo, Davide e le rispettive famiglie.
«Siamo davvero contenti» spiega Danilo Pamio «perché il papà e la mamma si stanno riprendendo. La scorsa settimana sono tornati a casa dall’ospedale di Mirano e possiamo parlare di miracolo. I miei genitori hanno reagito bene alle cure, medici e infermieri sono stati fantastici e vogliamo lanciare un grido di speranza anche per chi sta ancora combattendo: si può guarire». Il mese terribile dei Pamio è iniziato il 26 febbraio scorso, quando alla signora Marcella è salita la febbre sino a 40. All’improvviso e senza neppure un segnale di affaticamento o di altri sintomi. Nei giorni precedenti aveva fatto i soliti spostamenti, in paese, per il pane e la spesa. Poco più.
«Non aveva tosse» riferisce il figlio Danilo «e con una tachipirina, la temperatura corporea è scesa. Ma due giorni dopo, il 28 febbraio, anche a mio papà è salita la febbre sino a 38. Il 6 marzo, è stato quindi deciso il ricovero in ospedale a Mirano, dopo il tampone positivo. Sono stati in isolamento, senza passare per la terapia intensiva, curati con antibiotici e flebo».
La fede e la preghiera hanno accompagnato questa famiglia, mentre cresceva l’angoscia per i pazienti ricoverati nei vicini reparti di terapia intensiva e mentre, in tutto il Veneto, si ampliava la zona del contagio e si contavano i primi morti. Un’odissea condotta con grande coraggio e dignità da entrambi, fino al superamento della fase critica.
«La mamma» continua Danilo Pamio «è stata dimessa martedì, il papà venerdì. Devono stare in quarantena ma tutto sta andando per il meglio». Si dice sempre che nei momenti di difficoltà si vede quali persone ti sono vicine, chi non ti abbandona mai. «In tanti» prosegue il figlio della coppia «non ci hanno mai lasciati. Penso alla dottoressa Ornella Barbato e a tutto il personale del reparto di Medicina dell’ospedale di Mirano, ai loro colleghi Alberto Agemiano e Carlo Giacomin ma anche ai volontari dell’associazione Anteas-Avas di Scorzè per il trasporto.
«Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il bellunese Federico D’Incà, ha telefonato alla mamma, ogni giorno ci chiede notizie la sindaca di Scorzè, Nais Marcon, lo stesso fanno i sacerdoti locali, don Massimo Gallina, don Claudio Sartor e don Francesco Vincenti, che ci sostengono e anche con la preghiera. E poi tanti amici, i vicini di casa. Ripeto, è stato un miracolo e, per questo, diciamo grazie per il dono ricevuto alla Madonna, a San Benedetto e a tutti i santi». Dalla storia di Ubaldo e Marcella può davvero nascere la forza di tante famiglie di potercela fare.
(Alessandro Ragazzo)
Federico, in coma 23 giorni: "Ora ho formicolii e fatico a parlare"

Appena 42 anni, sportivo, in buona salute, Federico Rotunno è stato il primo paziente ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Dell’Angelo per il Covid. L’uomo, dentista di Scorzè, è tornato a casa il 24 aprile, dopo due interminabili mesi. Un destino condiviso con il suocero 77enne, Giacomo Celant, anch’egli ricoverato per il virus e ora a casa. Ma la vita di Rotunno, a due mesi e mezzo dalla dimissione e a tre mesi e mezzo dalla negativizzazione, è ancora un calvario.
«Ogni giorno meglio - racconta -, le forze stanno tornando. Sono uscito dall’ospedale con 20 chili in meno. Non pesavo 51 chili neanche a 14 anni. Ora sono riuscito a recuperare un po’ di massa muscolare e a mettere su un’altra decina di chili. Ma ho lavorato duramente per recuperare. Nelle prime settimane non riuscivo neanche a mangiare. Nonostante deglutissi solo cibo frullato, impiegavo due ore e mezza per ogni pasto. E ora continuò a fare fatica ad articolare alcune lettere, parlo piano, con la voce roca. Sto lavorato duramente per recuperare. Vado tutti i giorni dal logopedista, due volte a settimana dal fisioterapista e faccio ginnastica. E poi ci sono le visite di controllo, a rotazione: dallo pneumologo, dal neurologo, dall’otorino».
«Si sono presentate delle manifestazioni neurologiche - continua Federico - che mi costringono a un monitoraggio continuo. La disestesia non se n’è andata. Continuo ad avvertire formicolii all’osso del piede, che probabilmente permarranno per sempre. Io continuerò a impegnarmi per tornare a una vita più normale possibile, ma per dire se riuscirò a tornare come prima ci vorrebbe la sfera di cristallo. La mia fortuna è stata di essere giovane, sano e sportivo. Il recupero fisico che sto avendo è più rapido rispetto a quello che noto su mio suocero. E poi ho tollerato bene le terapie. Su di me hanno sperimentato un sacco di farmaci».
(Laura Berlinghieri)
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