“Lo strappo sospeso”: in un libro le vite spezzate dal Covid
Un lavoro d’inchiesta, di analisi e di sentimento: così Valentina Calzavara, giornalista della Tribuna di Treviso, rilegge il tempo della pandemia
TREVISO. Quasi 4000 morti nell’ultimo mese, più di cento al giorno, 175. 000 in totale, eppure il Covid scivola via, non occupa più le prime pagine sostituito da guerra, inflazione, crisi climatica: “Evidentemente non è uno spazio grande, quello che possiamo dedicare al dolore” scrive Lidia Ravera nell’introduzione a un libro che sembra andare decisamente controcorrente. In “Lo strappo sospeso” (Tab edizioni, pp. 372, 26 euro) Valentina Calzavara – trevigiana, giornalista, collaboratrice del nostro giornale – fa un esercizio di memoria, che è anche racconto di un presente che si vuole rimuovere. Racconta, in un montaggio alternato, vite spezzate dal Covid e strategie per attraversare un dolore indicibile, perché morire di Covid (e nel tempo del Covid) è diverso dal morire in altri modi, in altri momenti, perché in più c’è la solitudine di chi va e di chi resta.
NON VA TUTTO BENE, NO
Così il libro restituisce la voce a chi ha perso il marito, il padre, la moglie e poi ascolta la voce – attraverso tredici interviste – di chi può dire qualcosa di utile a chi è sopravvissuto: medici, teologi, psicologi, tanatologi, antropologi. Ogni storia è seguita da un’intervista che in qualche modo rilegge la vicenda personale raccontata allargando l’orizzonte, in modo che tanti possano ritrovarsi in quella forma di dolore e nei modi per affrontarla.
“Affrontare”: questo è uno dei termini su cui il libro si costruisce. Perché la prima cosa su cui tutti concordano (dalla psicologa Maria Rita Parsi all’antropologo Marco Aime, dal tanatologo Lorenzo Bolzonello alla teologa Lucia Vantini per fare qualche nome) è che il dolore va affrontato, non rimosso, non scartato, non cancellato.
In un tempo in cui tutti si affrettano a dire, anche di fronte alle cose più terribili: «non ti preoccupare, va tutto bene», questo libro ha il coraggio di dire che non va tutto bene, che non bisogna dire a un figlio che perde il padre «va tutto bene», che non bisogna negare la sofferenza, le lacrime, lo smarrimento.
LA NECESSITA’ DEL RITO
Morire da soli, come è avvenuto in questi due anni, non è una condizione normale, ma non è normale neppure non veder morire i propri cari, non poterne celebrare i funerali, affidare l’ultimo saluto ad un tablet. Ed allora – lo dicono molti degli intervistati, lo avvertono i protagonisti di queste storie – bisogna anche inventarsi cerimonie, perché il lutto ha bisogno anche di questo. E non importa se sono cerimonie laiche o religiose, collettive o individuali, quello che conta è dare una forma al dolore, dare un addio ai propri morti, perché senza addio anche la morte diventa qualcosa di “incompiuto” per chi resta.
PRENDERSI CURA
Ma quello che hanno da dire una esperta di bioetica come Luisella Battaglia, un filosofo come Massimiliano Valerii, psicologi e psicoterapeuti come Pasquale Borsellino, David Lazzari, Vera Slepoj, la criminologa Roberta Sacchi, il socciologo Domenico De Masi è anche molto altro.
Per esempio che bisogna prendersi cura dei vivi e dei morti, che unire il proprio dolore a quello degli altri può sfidare la rabbia di chi si sente defraudato all’improvviso di una vita, della speranza, dei progetti. Prendersi cura, come dice Papa Francesco, che ha scritto una breve lettera all’autrice, che viene pubblicata a inizio libro. Perché da questa storia, che non è finita e non finirà presto, si può uscire in tanti modi.
C’è chi è ottimista – come De Masi che intravede un futuro in cui anche grazie a questo l’uomo ritrova il gusto di una vita più piena – e chi è pessimista ma in tutti questi interventi si avverte che il Covid ha cambiato irreversibilmente la concezione che l’uomo aveva di se stesso. L’illusione di essere supereroi, capaci di risolvere qualsiasi problema, di affrontare qualunque situazione, si è schiantata di fronte all’impotenza rispetto ad un virus che a lungo – troppo a lungo – abbiamo voluto pensare banale. E forse banale lo è, nel senso che tutto questo può ricapitare, ma quel senso di invincibilità che l’uomo aveva maturato negli ultimi decenni è spezzato per sempre e sarebbe bene accettarlo.
UNA SCRITTURA OLTRE IL SILENZIO
Valentina Calzavara in questo libro raccoglie, diventa l’orecchio che ascolta chi ha sofferto e chi riflette con gli strumenti del proprio sapere su questa sofferenza. Ma il suo ascolto non è neutro, è lei la prima ad avere cura dell’altro, a non tradire (mai minimizzando, mai enfatizzando) le voci che le si offrono con fiducia, che accettano di farsi interpretare dalla sua scrittura mai banalizzante, per superare il silenzio che sentono intorno. Perché il silenzio di queste morti – lo si racconta in una di queste storie – è qualcosa che resta dentro. Dirsi addio a distanza, con gli occhi, perché non si può neppure parlare contrasta con il rumore che sta tutto introno, col brusio di un ospedale che in questi due anni ha imparato – come racconta nell’ultima intervista Antonella Vezzani – a prendersi cura del malato anche emozionalmente, perché nessun altro poteva farlo.
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova