Fine vita, Zaia risponde a Moraglia: «C’è una sentenza della Consulta che non può essere elusa»
«Il Veneto è la prima regione in Italia per qualità e accesso alle cure palliative. Un primato che è un fatto di civiltà. Noi amministratori abbiamo il dovere di dare delle risposte sul tema del fine vita»

di Luca Zaia
Caro Patriarca, ho letto con attenzione il Suo scritto e ne riconosco la profondità e l’autorevolezza. Non intervengo perché mi sento chiamato in causa, ma perché il mio ruolo istituzionale mi impone di affrontare la realtà con responsabilità e rispetto per le norme che regolano il nostro Paese.
Vi è una sostanziale differenza tra chi ha il dovere giuridico di dare risposte ai pazienti e chi partecipa al dibattito con autorevolezza d’opinione, ma senza una diretta responsabilità. Noi amministratori non possiamo contare su alcun istituto di obiezione di coscienza e dobbiamo applicare le leggi, in questo caso una sentenza della Corte Costituzionale, rispondendo a richieste da parte dei pazienti, che non possono essere eluse: su questo a nessun amministratore è concesso ambito di discrezionalità.
Sfrutto questo spazio, mi permetta Patriarca, per dire che è inaccettabile che, in questa situazione di incertezza, qualcuno possa strumentalizzare il dibattito per dipingere i governatori come i nuovi “untori”, quando il loro unico compito è applicare una sentenza.
Parliamo di malati incurabili, persone che, nel pieno delle loro facoltà, chiedono di poter gestire il proprio fine vita. Il suicidio medicalmente assistito in Italia è stato riconosciuto dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2019, emessa a seguito della richiesta del Dj Fabo, Fabiano Antoniani.
Per potervi accedere, il paziente deve trovarsi in una condizione di malattia irreversibile, soffrire di dolori insopportabili, essere dipendente da strumenti di sostegno vitale e pienamente capace di intendere e volere. La richiesta deve essere valutata dai medici e dai comitati etici delle strutture sanitarie regionali, che hanno l’obbligo di esaminare il caso e rispondere in base ai criteri stabiliti dalla Consulta.
Come ho già avuto modo di dirLe di persona, il mio agire non è dettato da una scelta ideologica, ma da un preciso obbligo giuridico che abbiamo in capo, come avviene in altri ambiti sanitari; ad esempio nell’aborto, dove vi può essere un’obiezione di coscienza da parte di un medico, ma la sanità pubblica deve garantirne l’esecuzione. Sul fine vita lo Stato di diritto impone che le sentenze si rispettino e le istituzioni devono garantire che ciò avvenga.
Vi è una sorta di cortina fumogena innalzata in questi mesi da quella parte dell’opinione che sta facendo passare l’idea che il suicidio assistito sia ancora oggetto di discussione, come se fossimo in una fase di valutazione. In realtà già nel 2017, con la legge sul testamento biologico, è stato riconosciuto il diritto con le DAT, le disposizione anticipate di trattamento, di sospendere trattamenti sanitari che prolunghino artificialmente la vita. Poi, nel 2019, la Consulta ha stabilito la possibilità di accesso al suicidio medicalmente assistito. Il dibattito non verte quindi sull’introduzione o meno di questo diritto, ma sulla sua regolamentazione.
Voglio ricordare che in Veneto, negli ultimi sei anni, sono stati valutati sette casi: quattro richieste sono state rigettate, tre accolte, e due pazienti hanno potuto gestire il proprio fine vita. Numeri che mostrano come non si tratti di una deriva generalizzata, ma di una realtà che riguarda poche persone che, con lucidità, rivendicano una scelta sulla propria esistenza.
Mi permetta di soffermarmi sulle cure palliative. Il Veneto è la prima regione in Italia per qualità e accesso a queste cure, un primato che consideriamo un fatto di civiltà. Bisogna fare di tutto per curare e accompagnare i pazienti fino alla fine, garantendo loro il massimo sollievo possibile. Tuttavia, è innegabile che alcuni, seppur pochi, abbiano scelto di rifiutarle, facendo di questa decisione una questione di dignità personale.
Di fronte a scelte tanto intime e delicate, il mio ruolo non è esprimere opinioni, ma garantire che le istituzioni diano risposte nel rispetto delle leggi e della libertà individuale.
Sono certo, Patriarca, che concorderà che su un tema così delicato non dovrebbero esistere fazioni. Il vero problema è che oggi manca una normativa chiara e il vuoto legislativo costringe le Regioni a muoversi in un terreno incerto, con il peso di decisioni enormi sulle spalle.
Proprio per questo, chiunque abbia dubbi su questa pratica dovrebbe battersi non per ignorarla, ma per chiedere al Parlamento di intervenire con una regolamentazione rigorosa. Se si ritiene che il suicidio assistito non debba rientrare tra i diritti dei malati terminali, la strada è una sola: una legge che superi e abroghi la sentenza della Corte Costituzionale. Come pure chi è a favore deve richiedere un legge chiara, con magari ulteriori e più forti garanzie a tutela dei malati terminali.
Mi sento di terminare con la convinzione che il Parlamento ha davanti a sé una scelta inevitabile. Non può più voltarsi dall’altra parte, lasciare che siano le sentenze a supplire alla politica, delegare ai comitati etici e agli amministratori decisioni che spettano alla legge. Il fine vita esiste, lo ha stabilito la Corte. Ora tocca alla politica nazionale assumersi la responsabilità di disciplinarlo con chiarezza e rigore, senza lasciare i cittadini, i medici e le istituzioni in un limbo giuridico insostenibile.
Decidere significa dare certezze, in un senso o nell’altro. Questo è il compito di un Parlamento che voglia dirsi all’altezza della dignità dei cittadini che rappresenta.
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