L'ultima mossa di Faccia d'Angelo, il mago del rischio calcolato

Ha il classico tocco di Felice Maniero, quest’ultimo colpo tirato dall’ex boss del Brenta. Vi si notano la spietata volontà di colpire chi ha sgarrato (i parenti serpenti che, a suo dire, gli stavano scippando un sacco di soldi loro affidati), la conoscenza perfetta dei meccanismi criminali (come s’infratta e si ricicla il denaro sporco) e dei meccanismi giuridici (usati al posto delle armi, stavolta, per liquidare chi bisognava, ma al tempo stesso tenendo, con il timer della legge, al riparo della prescrizione i parenti fedeli).
Davvero una manovra griffata Maniero. Compreso un buon grado di spericolatezza, perché certo la mossa innescherà un’ulteriore ricerca di tesori e tesoretti forse altrove celati e ulteriori verifiche sul patrimonio e sulla condotta dell’ex boss. Ma questi rischi devono essere stati messi in conto, e ben calcolati, come sempre Maniero ha fatto.
E’ stata infatti sempre questa la sua vera differenza: possedere, oltre che la stessa ferocia e spavalderia dei suoi sodali, una superiore capacità di calcolo e un infinito cinismo.
Una capacità, anche, di concepire e sviluppare trame più complesse di quelle più rozzamente malavitose, che dimostra fin dall’inizio. Sul suolo fecondo di una mala arcaica, infatti, Maniero trasforma un’esplosiva congrega di suoi pari in una potente struttura criminale, aggregando al nucleo originario del Piovese i più spregiudicati e determinati gruppi di varie province, in particolare del Veneto orientale, della città storica di Venezia, e i più duri fra tutti, i “mestrini” (tra Mestre e Marghera).
Il giovane di Campolongo Maggiore li unifica sotto un comando inventivo ed efficiente e, al caso, feroce nel reprimere i conflitti, come dimostra la storia dei fratelli Rizzi, e non solo (l’omicidio chirurgico, strategico, è una costante nella storia della banda).
Il boss comanda, però, soprattutto per la maggiore intelligenza generale, che tra l’altro gli suggerisce di lasciare una certa autonomia ai vari nuclei, dai quali ottiene così la lealtà e la forza militare per tenere sotto ferreo controllo gli affari sporchi (soprattutto lo spaccio di droga) in buona parte del Veneto.
Maniero è, dunque, l’uomo che trasforma la vecchia mala erede dei briganti delle campagne, dei fuorilegge per destino sociale (come il veneziano Kociss, ben descritto nella sua biografia da Roberto Bianchin) o per rabbiosa, cruda reazione a sradicamento e marginalità (come nell’hinterland tra Mestre e Marghera) in un’impresa criminale di nuovo tipo.
Lo fa portandovi i legami che stabilisce, dapprima, con mafia e camorra (il clan dei Fidanzati e Francis Turatello, soprattutto) e poi con le altre mafie e perfino con gli apparati di stato che nascono all’est (in Croazia, ad esempio, dove a un certo punto si sposa per ottenere la cittadinanza, una storia poco raccontata e forse anche una pista poco seguita).
E’ una parabola che la fiction ha a volte mitizzato, che è stata meglio documentata dai media e narrata in vari libri (Dianese, Pasqualetto, Zornetta), anche sullo sfondo del nuovo crimine del Nordest (Dinello-De Francisco-Rossi). E’ sul finale di questa parabola che le cose si fanno più nebbiose, al punto che, per raccontarlo più compiutamente, uno degli autori che meglio lo conoscono l’ha esplicitamente romanzato (Maurizio Dianese, “Mala Tempora”, Aliberti editore).
Ancora in questi giorni, su quel periodo si sono interrogati gli investigatori che più hanno avuto a che farci e che infine l’hanno sconfitto, magistrati come Pavone e Fojadelli, poliziotti come Festa e il grande capo della Mobile veneziana Antonio Palmosi. E’ da quel finale di partita, appunto, che scaturisce anche la partita attuale. Quanti soldi aveva accantonato Maniero?
E dove?
Adesso sappiamo dov’era, in mano a parenti, almeno una parte di quei soldi - provento di rapine, furti, sequestri, traffico d’armi e soprattutto di droga, la droga che ha avvelenato e falcidiato la nostra regione e le nostre città, che ha fatto strage di giovani e devastato famiglie e interi quartieri: l’infamia del boss non è quella del suo pentimento, come dicono i suoi ex sodali, l’infamia imperdonabile, sua e loro, è stata questa.
Non è chiaro perché Maniero si sia risolto a questa mossa. Forse non aveva alternative, per dimostrare che è sempre lui e che nessuno può permettersi di fregarlo. Non li ammazza più, ma li rovina lo stesso, i suoi nemici. Corre un rischio, ma è tutto calcolato, appunto.
O forse, invece, anche l’ex “faccia d’angelo” è ormai provato, gli affari avviati da uomo libero in crisi, la sua nuova identità inopinatamente spiattellata, forse anche l’età che avanza, la scoperta che vivere nella normalità e secondo la legge non è semplice per chi ha sempre fatto, da fuorilegge e anche dopo, il fenomeno. Non lo sappiamo.
Vedremo nel tempo se questo colpo di scena è il gesto inedito di un ex boss indebolito e di un uomo in difficoltà o l’ennesimo acuto di un interprete rimasto ancora protagonista e padrone di sé.
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