Musei d’impresa, un turismo che piace

Auto di Formula 1, oggetti di argento purissimo, storiche macchine per il caffè, tessuti di alto pregio e l’universo pop delle scatole metalliche colorate con lochi di design per le creme e lucidi. Quante cose pensate, progettate, prodotte e comunicate. Quanti percorsi prima familiari e poi anche manageriali, quante storie vere e differenti, da raccontare.
L’apertura alle visite gratuite da parte dei musei d’impresa nel cuore del Veneto ha unito questi punti ed è apparsa una geografia della cultura industriale, una geografia che ha saputo costruirsi e mostrarsi, uno scrigno emotivo fatto di idee e di memoria.

Cinque eccellenze – Archivio Benetton a Villorba (Tv), Spazio Calegaro a Teolo (Pd), Dersut Museo del Caffè a Conegliano (Tv), Museo Fila Solutions a San Martino di Lupari (Pd) e Fondazione Rubelli a Venezia – più la la Archimede Seguso’s Museum Foundation, presidio della lavorazione del vetro a Murano – hanno aperto le loro porte ai lettori di Nem - Nord Est Multimedia, il gruppo editoriale che edita anche questo giornale, grazie a un lavoro in sinergia con Confindustria Veneto Est e Ca’ Foscari.

I posti messi a disposizione per le visite erano 470 e sono andati esauriti, con quasi 120 richieste ulteriori, in lista d’attesa; purtroppo rimaste escluse. Il fenomeno della narrazione d’impresa sta finalmente radicandosi in Veneto; flirta con le opportunità degli altri “turismi” e intercetta grande interesse.
Il bilancio con il prof Panozzo
«Fare museo non è solo un plus dal punto di vista culturale, ma una parte integrante del proprio modo di essere azienda». È il bilancio che fa Fabrizio Panozzo, docente di management culturale all’università Ca’ Foscari e direttore del centro Aiku - Arte Impresa Cultura, dopo il fine settimana di porte aperte dei cinque musei d’impresa veneti.
Professor Panozzo, come è andata l’iniziativa?
«Mi occupo di questo fenomeno da anni e ho trovato una situazione in forte e positiva evoluzione. A noi interessava monitorare la crescita di consapevolezza delle aziende, perché nel Nord Est abbiamo sicuramente molta vivacità rispetto a iniziative di questo tipo, ma poca continuità. Abbiamo certamente notato più consapevolezza».
Anche da parte dei visitatori?
«C’è sicuramente un turismo di prossimità, cioè che chi vive nelle vicinanze e viene anche a visitare il museo di un’impresa. Ma c’è anche un altro tipo di pubblico, cioè i turisti business, che va in un distretto industriale per ragioni commerciali e trova in quel territorio un’offerta culturale, che dà anche le dimensioni di cosa sia davvero il Made in Italy. L’orizzonte sul quale ci proiettiamo, come studiosi di management, consiste proprio nel far capire alle imprese l’importanza di essere presenti nel proprio territorio con una rappresentazione culturale».

C’è margine di crescita per il turismo industriale?
«Sicuramente. C’è molta possibilità di riscoperta del territorio da parte di chi ci abita. È un turismo che può anche aiutare a scaricare i flussi dalle mete convenzionali. Faccio un esempio: la scoperta della riviera del Brenta come luogo di creatività nell’ambito della calzatura di lusso potrebbe essere uno straordinario meccanismo di deviazione del flusso, seguendo una particolare nicchia – ma non banale – di turisti della moda. Se racconto nel modo giusto che i migliori tacchi 12 al mondo vengono fatti a Fiesso d’Artico, magari costruisco un’opportunità di visita.
C’è quindi bisogno di un cambiamento culturale?
«Certo. Molto spesso le aziende stanno in filiera, cioè lavorano per un brand, ma non hanno un loro marchio. Il brand non ha nessun interesse a raccontarle, quindi l’iniziativa deve arrivare da un’altra parte. Molta produzione creativa di filiera viene fatta in Veneto, ma appunto essendo un business-to-business, le piccole realtà che hanno nomi anonimi non appaiono mai. Fare un museo di sé stesse potrebbe aiutarle a uscire da questo predominio del brand».
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