Palmisano, Fimmg: «La sfida: lanciare sul territorio le aggregazioni di medici di base»
Il neosegretario regionale del sindacato Fimmg è il veneziano Giuseppe Palmisano: «Ecco il mio programma»
![Giuseppe Palmisano, neo segretario regionale della Fimmg del Veneto](https://images.mattinopadova.it/view/acePublic/alias/contentid/1gy4o8bizjxtgwnzq2x/0/whatsappimage2025-01-31at153146.webp?f=16%3A9&w=840)
Ripartire dai contratti, rilanciare la sanità territoriale, sostenere le zone disagiate e le piccole frazioni: l’agenda del nuovo segretario regionale del Veneto della Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (Fimmg) Giuseppe Palmisano, 52enne medico di famiglia a Quarto d’Altino è ricca di spunti.
Che obiettivo o sfida si è posto per questo mandato?
«Nel breve termine, vedere realizzato un accordo integrativo regionale all’altezza del Veneto, per riuscire a strutturare la sanità territoriale in maniera efficiente».
È possibile?
«Sì, il Veneto è una regione che ha dato tanto, ricordiamoci che il Sistema Sanitario Nazionale è nato qui, con Tina Anselmi».
A cosa serve, l’accordo?
«A potenziare le aggregazioni territoriali funzionali, cioè l’insieme di medicine di gruppo e ambulatori singoli. Questi presìdi, prima ancora delle case di comunità sono fondamentali per rispondere ai bisogni delle piccole frazioni e zone disagiate.
Ad oggi, come è messa la sanità territoriale, la medicina di base?
«Una situazione sull’orlo della disperazione, il carico di lavoro è esponenziale tra la mole di attività legata alla prevenzione e quella legata all’aumento dei pazienti cronici. Per non parlare dello tsunami legato alla salute mentale, negli ultimi anni c’è stato un aumento dei problemi d’ansia, che ha generato un aumento spropositato dei bisogni di salute. Tutto ciò si ripercuote sui carichi di lavoro per i medici, sulla qualità di vita, cosa che porta al burnout».
Come mai così tanti medici in burnout? Qual è la causa?
«C’è tanta frustrazione perché non siamo riconosciuti nel nostro ruolo. Lo stipendio non è cresciuto mentre il costo della vita è lievitato».
Bisogna ripartire dai contratti?
«Sì, e dalla tutela della maternità, dei riposi e del diritto alla disconnessione».
Le difficoltà sono dettate anche dalla carenza di medici? Perché la professione non è più appetibile?
«Spesso sentiamo dire che i medici di base lavorano poco e guadagnano tanto, ma sono critiche da bar sport. Rigiro la domanda alla politica: se è così, perché nessuno vuole più fare i medici?»
Il test d’ingresso a Medicina scoraggia davvero i ragazzi? È d’accordo con chi sostiene che andrebbe tolto?
«Il numero chiuso è necessario per la programmazione, la sanità non si può improvvisare. Penso, però, che i quiz non bastino, servirebbe un colloquio per tenere conto degli aspetti motivazionali di questi giovani, fondamentali nella professione e il rischio è che persone molto motivate restino escluse per un punteggio basso».
In queste settimane è in corso un braccio di ferro con il ministro Schillaci che vorrebbe rendere i medici di base dipendenti dalle Usl, per poterli inserire nelle case di comunità. Cosa ne pensa?
«Ci teniamo a difendere il nostro status di convenzionati, che nasce nel 1978 con il Ssn e che gli ha consentito di reggere fino ad oggi».
Qual è il rischio che si corre?
«La gestione delle case di comunità con dei medici che non hanno un rapporto fiduciario con il paziente che, invece, è un caposaldo del nostro sistema sanitario».
La politica è spesso accusata di star smantellando la sanità pubblica, dietro questo braccio di ferro c’è un retropensiero?
«Il privato che avanza non è una novità ma, certo, oggi è un problema serio e non si può nascondere. Per ridurre il ricorso a cliniche e centri privati, il sistema va ritoccato e potenziato a livello economico. Servono idee lungimiranti e programmazione, non possiamo sempre ragionare nel breve termine per sistemare i bilanci».
Andiamo verso un sistema sempre più integrato, tra pubblico e privato?
«Sì, non si devono vedere le due realtà necessariamente come in contrapposizione. Il privato è una risorsa in quelle zone in cui non ci sono servizi. Bisogna lavorare affinché le due realtà coesistano, il pubblico non deve soccombere ma rilanciarsi».
Nella nostra Regione, quali sono quelle più disagiate?
«Sicuramente il Bellunese e Rovigo. Anche Venezia centro storico e le isole sono realtà particolari».
Riconoscere Venezia come zona disagiata, si o no?
«Assolutamente sì».
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