Quello che (forse) non sapete o non vi ricordate del crac della Popolare di Vicenza

VICENZA. In una delle tante udienze del processo Gianni Zonin aveva il groppo in gola mentre leggeva una memoria (non ha mai voluto essere interrogato) accusando altri di avergli rovinato la reputazione.
Le sue lacrime mal trattenute contro le lacrime di migliaia di soci della Popolare di Vicenza rovinati dalla sua banca. Come in una tragedia greca, il protagonista e il coro che gli fa il controcanto. Sta in questo incrocio la violenza del dramma che non si chiude con la sentenza di oggi: l’alto concetto di sé del banchiere contro il dolore di gente stracciata due volte, perché nel denaro scomparso vede perduto non solo il vile quattrino ma il frutto del lavoro, forse l’unica vera religione in cui credono i veneti. Preferibilmente senza Iva.
Il disastro della Popolare di Vicenza viene da lontano, è un difetto che sta nel manico, un virus che si annida nella ragione sociale di cooperativa senza scopo di lucro della banca e nella politica di grandeur perseguita per vent’anni dal cavaliere di Gambellara.

Zonin arriva alla presidenza l’11 maggio 1996, sedia che non mollerà più e mette il turbo alle acquisizioni. In rapida successione Vicenza conquista la Popolare di Castelfranco, di Trieste, di Belluno, Banca Piva di Valdobbiadene, la Popolare Udinese, Banca Nuova di Palermo e Banca del Popolo di Trapani, poi fuse con gli sportelli di Antonveneta nell’isola.
Dove arrivano le filiali di Vicenza, si allungano i poderi dell’azienda vinicola di Gambellara. Da Prato a Brescia, a Bergamo, Milano, Roma, e poi all’estero, San Paolo in Brasile, Shangai, Hong Kong, Nuova Delhi, New York, Mosca.
Il travolgente successo che porta Bpvi tra le prime dieci banche italiane e fa di Zonin un punto di riferimento per Banca d’Italia, è anche la ragione del tracollo. Nel 2008 la crisi della Lehman Brothers mette in ginocchio il sistema finanziario mondiale ma a Vicenza fanno finta di niente: prima uno sportello bancario valeva mediamente 10 milioni di euro, dopo il valore precipita fino a diventare un costo.

Zonin compra sportelli a centinaia ma non li svaluta nei bilanci successivi e la cosa insospettisce il comandante della Guardia di Finanza di Vicenza Fabio Dametto. Comincia così l’indagine che scoperchierà la banca, anche se il falso in bilancio era già emerso nel 2002, portato alla luce dall’allora direttore generale Giuseppe Grassano. Il memoriale Grassano aveva innescato un processo pieno di rimpalli, dal quale il presidente Zonin esce nel 2009 con una sentenza di non luogo a procedere. E con due magistrati che avevano avuto un ruolo determinante nella decisione, Antonio Fojadelli e Manuela Romei Pasetti, assunti a fine carriera in consigli di amministrazione di società della banca.
Era la tecnica del cavaliere di Gambellara, quella che Ferdinando Casini presidente della prima commissione parlamentare d’inchiesta ha definito «il tentativo costante dei vigilati di catturare i vigilanti». La captatio benevolentiae verso i magistrati è stata solo l’ultimo stadio, si cominciava molto prima con gli ispettori di Banca d’Italia e con ufficiali della Guardia di Finanza, reclutati a fine operazione in posti di responsabilità della banca. Porte girevoli, le chiamano. L’elenco è lungo.

Una strategia che Zonin ha difeso come scelta imprenditoriale davanti alla commissione d’inchiesta il 13 dicembre 2017: «Mi aspettavo i vostri ringraziamenti per aver preso il meglio delle professionalità esistenti». Come se il presidente di una squadra di calcio si gloriasse di aver assunto l’arbitro.
Banca d’Italia sapeva delle “baciate”, i finanziamenti concessi senza garanzie dalla Popolare di Vicenza per l’acquisto di azioni proprie, senza detrarre il corrispettivo dal patrimonio, con ciò gonfiandolo fittiziamente. L’hanno testimoniato al processo il capo degli ispettori Emanuele Gatti, dirigenti della banca come Silvio Cauduro, clienti importanti come i fratelli Ravazzolo. Zonin ha sempre scaricato sui sottoposti, anche se la banca era lui e lui era la banca, non si muoveva foglia senza che lo sapesse. Il sistema era in auge già nel 2011 e diventa prassi negli anni successivi arrivando alla collocazione forzosa delle azioni al cliente, altrimenti niente finanziamento. Ma la vigilanza lo scopre solo quando il controllo passa da Banca d’Italia alla Bce.
E’ con la Bce che il popolo dei 118.994 soci, cresciuto al traino di azioni arrivate a 62,50 euro, scopre l’amara verità: la quotazione era pompata per mantenere il consenso. Zonin decideva il prezzo con i clienti più facoltosi alla “cena degli uccelli” (anche qui ci sono testimoni) e lo faceva votare all’assemblea dei soci, mai più di 3-4000 persone, saldamente in mano al gruppo dirigente.

La democrazia finanziaria si rivela un abbaglio. La banca del territorio era una balla, la “musina” dove mettere al sicuro i risparmi un’altra favola. Fatale che a inizio 2015 arrivi il decreto Renzi a imporre a queste Popolari anomale la trasformazione in Spa e la quotazione in Borsa. Ma tardi e male. Popolare di Vicenza e la gemella Veneto Banca finiscono in un vortice: inchieste della magistratura, perquisizioni della Gdf, cure da cavallo di sedicenti manager, esperti in salvataggi mancati.
L’agonia termina il 25 giugno 2017 con la liquidazione coatta. Banca Intesa si prende i cocci, chiamali cocci. Quattro anni dopo tutto è ancora da capire: dalle responsabilità dell’Unione europea emerse con la sentenza Tercas a quelle del Tesoro e di Banca d’Italia che in vista del “bail-in” hanno usato solo 1 miliardo di aiuti di stato (prima del 2015 erano consenti) contro 239 miliardi della Germania. La Popolare di Bari, nelle stesse condizioni delle due venete, è ancora in vita. E il popolo dei truffati è sempre in attesa di giustizia.
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IL LIBRO
Banche, banchieri e sbancati. La grande truffa dal Veneto al resto d'Italia

210.000 risparmiatori truffati, 300.000 ipoteche immobiliari ancora da escutere. Questi sono i numeri e le conseguenze dei crac bancari solo del Veneto, ma con cifre diverse è accaduto lo stesso in altre parti d’Italia, come la triste catena di suicidi documenta.
Clienti facoltosi e modesti risparmiatori menati per il naso da gestioni acrobatiche e tenuti buoni con versioni di comodo. Prigionieri di un patto leonino che li voleva spolpati e contenti. Soldi facili fatti sparire dalle banche, attinti dalla laboriosità e dalla propensione al risparmio degli italiani. Denaro che faceva correre la locomotiva del Nord-Est e il resto del Paese finanziando operazioni immobiliari, speculazioni sui cambi, avventure imprenditoriali coperte dall’amicizia e non da adeguate garanzie.
Frutto di mesi di ricerca, di molte interviste originali e della visione di documentazione mai prima consultata, questo libro-inchiesta ricostruisce in modo chiaro e dettagliato il meccanismo usato per gonfiare il valore delle azioni; il comportamento omissivo degli organi di vigilanza; i favori dei banchieri agli “amici degli amici”; il fenomeno delle “porte girevoli” con cui si assoldavano i controllori; le intercettazioni e i super stipendi che i manager si elargivano; i percorsi a zig zag dei professionisti dei salvataggi bancari mancati; la mobilitazione mai finita delle associazioni dei risparmiatori truffati; il ruolo discutibile del pubblico. Fino ai processi in corso e alla telenovela dei rimborsi.
Editori Laterza. i Robinson
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