Medici di base e Pnrr, in Veneto le case di comunità rischiano di diventare “scatole vuote”

Lanzarin: «Le case di comunità segnano un nuovo modo di concepire territorio e sanità». Scassola (Fimmg): «Si aggreghi chi lavora da solo, rischiamo di costruire scatole vuote»

Laura Berlinghieri
In Veneto la carenza di medici di base è endemica
In Veneto la carenza di medici di base è endemica

Mancano i medici di medicina generale. Eppure dal Pnrr è arrivata una pioggia di milioni – 135,4 soltanto in Veneto – per la realizzazione delle nuove case della comunità. Strutture inedite di sanità pubblica, i cui perni professionali dovrebbero essere proprio i medici di famiglia.

«Strutture che rischiano di trasformarsi in scatole vuote» è la previsione di Maurizio Scassola, segretario veneto della Fimmg, il primo sindacato dei dottori di base.

Ma intanto le Regioni sono in pressing sul governo, perché si decida sulla famosa riforma della medicina generale – la bozza è già pronta –, che dovrebbe consentire l’assunzione dei medici di base in queste strutture.

Trasformando, allora, anche i contratti degli stessi professionisti, che, dall’esercitare l’attività professionale in convenzione con il Ssn, si ritroverebbero a divenire dipendenti da assegnare alle nuove strutture. E l’esecutivo potrebbe rispondere già il mese prossimo con un decreto ad hoc: una risposta potrebbe arrivare a giorni, con un nuovo incontro con il ministro della Salute Orazio Schillaci.

I nodi, sostanzialmente, sono due. Il primo, già detto: manca la “materia prima”. Mancano i medici di famiglia, e quindi – dice Scassola – «non si capisce dove si riusciranno a recuperare i professionisti per le case di comunità».

«Ma i medici che saranno impiegati nelle nuove strutture continueranno a svolgere la loro normale attività ambulatoriale» replica l’assessora alla Sanità Manuela Lanzarin, «A seconda del numero di assistiti, svolgeranno più o meno ore all’interno delle case».

Anche se, si sa, proprio per sopperire all’enorme carenza di medici di base, la Regione ha progressivamente innalzato il massimale dei dottori di base. Ed è quindi difficile immaginare che questi medici decideranno autonomamente di andare ricoprire i turni all’interno di strutture votate a un lavoro continuo. A meno che, è chiaro, non vi sia un obbligo: a deciderlo sarà ciascuna Regione, in autonomia.

«Ma è una nuova visione, un cambio di paradigma, un passaggio culturale. Un modo inedito di concepire l’integrazione tra territorio e ospedale» fa presente Lanzarin, sottolineando che la richiesta delle Regioni riguarda la medicina generale, tutta.

«Un settore che va completamente riformato, essendo il tassello più debole della nostra sanità, dato che mancano professionisti, mentre, parallelamente, la popolazione invecchia e le cronicità aumentano».

Ed è un punto sul quale concordano i sindacati. Con le dovute – e grandi – differenze sul metodo da seguire per operarla, questa rivoluzione.

«Si pensa alla medicina generale come fosse l’origine di tutti i mali. E, parallelamente, alle case di comunità come la panacea di questi mali. Ma non è così» dice Scassola, «Mi preoccupa il fatto che la politica, in Italia e in Veneto, racconti che, grazie a queste nuove strutture, i cittadini avranno più prestazioni e servizi più vicini. Sicuramente sarà fatto un passo avanti, ma la vera urgenza consiste nel rilanciare gli studi dei medici di famiglia, altrimenti rischiamo di costruire delle strutture che si riveleranno delle scatole vuote».

È una richiesta ripetuta ormai da anni, come un ritornello. «In Veneto, il 37% dei medici di medicina generale lavora solo e non ha la possibilità di aggregarsi con i colleghi, essendo operativo in luoghi “dispersi”» dice il sindacalista, «Quello che dovremmo fare è dare organizzazione e supporto a questi professionisti, implementando le medicine di gruppo»

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