Riti, tradizioni e sentimenti: l'essenza vera di Natale, San Silvestro ed Epifania

Tre racconti per ritrovare l'essenza delle feste con lo scrittore padovano Paolo Malaguti
Dallo scatolone del Natale spunta il passato. Addobbi, ricordi, rimpianti

Saranno feste strane e diverse, ma saranno comunque feste, e vale la pena viverle. Grazie alle limitazioni, quest’anno ho avuto il tempo per fare il presepe con calma. Di solito devo ritagliarmi un pezzo di pomeriggio per recuperare, già con la pressione alta e il nervoso che incombe, lo “scatolone del Natale” dal sottoscala in garage. Non so se esistano persone così ordinate e razionali da riporre tutti gli addobbi con precisione per l’anno successivo. Forse perché smontare l’albero e incartare le statuine non è mai un’operazione allegra, di solito la eseguo in fretta e furia. E così l’anno dopo, quando strappo lo scotch che trattiene a malapena le pareti di cartone dello scatolone natalizio, il primo pensiero è “Non ce la farò mai”.
Soprattutto mi manda in bestia il groviglio di festoni per l’albero: so già che non sarà facile far ritornare la matassa informe alla sua originale funzionalità, e so che anno dopo anno questa operazione rende il serpentone argentato sempre più spelacchiato, come il boa di piume di una vecchia prostituta felliniana. Le statuine del presepe sono invece motivo di orgoglio: comprate tutte assieme, in un mercatino di Natale, una volta piazzate sul muschio fanno la loro figura. Sono poche, stilisticamente omogenee. Coerenti. L’unica pecca è la mano di san Giuseppe: nel trasporto a casa si è rotta (va ben: l’ho rotta) e ho dovuto incollarla con l’attaccatutto. Da lontano l’effetto è sostenibile, ma da vicino il castissimo sposo pare un mutilato della Grande Guerra.
Pure l’albero è molto bello. È di quelli bianchi: una volta decorato con le luci a led bianche, con il suddetto festone argentato e con le palle di vetro azzurre e trasparenti dà un’impressione di algida pulizia, di purezza siderale. Quando l’operazione di allestimento del presepe e dell’albero è completata, il soggiorno si mostra proprio bello. Dirò di più: pare preso da quelle pubblicità di cioccolatini, o di panettoni, nelle quali giovani donne e signori eleganti stanno seduti su immacolati divani in pelle, illuminati da una luce calda e soffusa, sorridendo soddisfatti a buon diritto della propria perfezione. Contemplo un paio di minuti tale equilibrio estetico, e poi procedo.
Sì perché lo scatolone non è ancora vuoto. Quanto è stato fin qui preparato è un semplice scheletro. È pura struttura, senza anima, senza carne. E ora la carne arriva: per il presepe si tratta degli animali. Sono il frutto di lasciti e transiti generazionali, e di dispute ereditarie: la mia preferita è una pecora. È grande esattamente quanto il pastore che tiene in mano la lanterna, ma pure lei deve essere piazzata sul muschio. Anzi, questa pecora ha storicamente più diritto al presepe di tutte le altre statuine, perché è l’unica testimone giunta a me del presepe titanico di mio nonno paterno.
Tutto il resto dell’anno erano i nonni padovani ad avere a che fare con noi, ma per Pasqua e Natale si andava dai nonni ferraresi: appena entrato subito correvo a cercare dove il nonno avesse fatto il presepe. Era qualcosa di gigantesco, almeno ai miei occhi, addirittura con le colline di cartapesta colorata di verde, e col ghiaino bianco a tracciare una fitta rete di sentieri.
Era bello quel presepe? Macché, ma la sua bellezza sinceramente non mi interessava per nulla. Era unico, e tanto bastava. C’era un affollamento demografico incredibile, più che di Notte Santa pareva una sagra di paese, un’uscita dallo stadio. Poi le proporzioni erano rispettate nei pressi della capanna, ma saltavano allegramente già nelle seconde file, dove vecchi ciabattini lavoravano immobili accanto a galline grandi come un’automobile e a cammelli grandi come galline. Ed era bello così, perché standomene lì, a mangiarmi con gli occhi quella cornucopia disomogenea di piccoli simulacri di vita, le storie nascevano da sole, non dovevo nemmeno fare la fatica di immaginarmele.
E c’era la neve. Mio nonno acquistava ogni anno un barattolo di neve spray, e lo vuotava, con religiosa precisione, sullo sfondo del presepe. E così alcune statuine, anno dopo anno, si trasformavano in pupazzi bianchi, e mi domandavo chi mai ci fosse sotto quel cumulo di materia plastica, se una pastora avvolta nel suo scialle, o una palma pelosa piantata su una base di sughero.
Anche il mio albero di Natale, troppo algido e puro, deve ricevere il battesimo della tradizione familiare: qui però la fonte è l’albero dei nonni materni. Loro non facevano un presepe all’altezza dei nonni di Ferrara, o meglio, lo facevano, ma mentre i nonni di Ferrara avevano 3 nipoti che rispettavano i loro arredi natalizi, quelli di Sant’Angelo di Piove di nipoti ne avevano 14, e non passava pomeriggio senza che ne arrivassero un paio a demolire le baracche di Betlemme, o a “mettere a dormire” pastori e pecore. L’albero, invece, era interessante. Prima di tutto perché attaccati ai rami c’erano quei cioccolatini a forma di babbo natale, cavi all’interno, cui facevamo la posta con la pazienza del cacciatore. E soprattutto sull’albero dei nonni padovani c’erano gli uccellini.
Quegli uccellini costituiscono nella mia mente il non plus ultra del simbolo natalizio. Non c’è niente che profumi di Natale quanto quegli uccellini di latta, con una molla ossidata al posto delle zampine, e con una lunga piuma colorata e vera (o vera ai nostri occhi) per coda. Ora uno di quegli uccellini troneggia impavido sull’albero bianco, e a un occhio ignaro potrebbe apparire stonato, un aperto insulto al rapporto aureo del Natale. Ma così vanno le cose quando si parla di famiglia: hai a che fare con la tradizione, e la tradizione, come le correnti dei grandi fiumi, ti porta con sé, e non puoi farci niente: o esci una volta per tutte, o ci stai dentro, nel bene e nel male.
Spero che ognuno di noi, al di là delle convinzioni e delle scelte, possa continuare ad avere, a casa propria, un oggetto, un soprammobile, un orpello che non c’entra niente, che dovrebbe essere tolto di mezzo perché “non ci sta”, come la pecora titanica o l’uccellino stonato. Ma lo teniamo, lo rancuriamo, ed è giusto e bello così, perché, grazie a Dio, non siamo prodotti razionali di equilibrio estetico e perfezione formale. Siamo impasti doloranti di vita e morte, affetti storti, rapporti folli per chiunque non li viva, rimpianti e ricordi stupendi, e la nostra famiglia, mentre la odiamo e la amiamo senza riuscire a risolverci, continua a parlare di noi, e noi continuiamo a parlare di lei, anche solo con un uccellino spiumato che per trecentotrenta giorni all’anno se ne sta buono, al buio, nello scatolone natalizio, nel sottoscala del garage. —
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Il calore, la noia, il senso dell’attesa: le stagioni della vita in una notte

Dovendo stilare una classifica delle festività natalizie, il Capodanno si piazza al secondo posto. Medaglia di bronzo al Natale, medaglia d’oro alla Befana, ma proprio a mani basse, con distacchi siderali. Il fatto è che ognuna di queste tre feste ha avuto un’evoluzione diversa. Il Natale è conservativo: ancora oggi rispetto dei riti (il cenone o il pranzo, lo scambio di doni) nella sostanza identici alla mia infanzia. La Befana è venuta meno con l’età adulta, è sopravvissuta qualche anno stancamente, poi un anno non abbiamo più messo le calze sulla cappa dei fornelli della cucina (visto che il camino non c’era), e la Befana quella notte è passata oltre. Il Capodanno invece da un lato resiste, come il Natale, ma d’altra parte ha subito profonde e radicali metamorfosi nelle varie fasi della mia vita.
La prima stagione, quella dell’infanzia, prevedeva festeggiamenti a casa, e senza invitati. E questa era una gran cosa, perché era una festa vera e propria, ma tutta per noi. L’altra differenza (che poi è quella che a distanza di anni mi intenerisce di più) era di natura culinaria: a Natale e all’Epifania il pranzo o la cena erano ben riconoscibili, e tutto sommato poco originali: tovaglia bianca, bicchieri buoni, brodo coi tortellini, purè col cotechino, pandoro in chiusura. E goccio di moscato, che è dolce e anche i bambini potevano assaggiarlo. Invece il pomeriggio del 31 la mamma preparava i tramezzini.
Erano quelli il quid che rendeva l’ultimo dell’anno riconoscibile. Tramezzini con la maionese, le olive, il tonno, il salame ungherese. Cibi più o meno presenti anche negli altri giorni, ma uniti al pane da tramezzini, così diverso e così buono, tutto diventava nuovo. Poi c’era l’aranciata, e magari qualche sottospecie di cola (perché la Coca secondo mia madre faceva male), ma erano i tramezzini ad occupare le mie attenzioni. A mezzanotte si arrivava senza tempi morti, e a quel punto andavamo sul terrazzino a guardare i petardi e le fontane luminose giù in strada o sui terrazzini dei vicini. Noi no, perché i petardi erano pericolosi (va da sé, appena ho avuto soldi in tasca alle medie mi sono precipitato dal tabacchino che vendeva raudi, zeus, magnum), e ricordo un anno in cui, chissà per quale ragione, mia madre prese il coraggio a due mani e comprò addirittura delle stelle filanti, quei bastoncini di fil di ferro che piazzi sulle torte agli anniversari. Io e mia sorella ci piazzammo sul terrazzo con una stella filante per mano, e rimanemmo lì, fermi e inebetiti, certi che in breve saremmo saltati in aria. C’era, a portata di mano, una caraffa d’acqua, per spegnere eventuali incendi.
Poi è arrivata l’adolescenza vigliacca, che ha imposto uno dei suoi dazi più pesanti proprio sul veglione. All’improvviso il desiderio di far festa con gli amici, lontano da casa, di fare tardi, di tirare l’alba, ha preso il sopravvento sui tramezzini e i fuochi dal terrazzino. E qui c’è la stranezza, perché se passo in rassegna gli ultimi dell’anno della mia adolescenza (diciamo tra i 14 e i 20 anni?) trovo solo serate deprimenti, non già perché lo fossero in sé (non tutte almeno) ma perché erano dominate da una sorta di tensione inespressa, da un nervosismo latente, dettato, credo, dalla voglia di fare qualcosa di memorabile, di definitivo, che però si scontrava invariabilmente con la quieta normalità delle nostre esistenze.
Alcuni fotogrammi da ultimo dell’anno adolescenziale: il nervosismo per chiedere di ballare a una ragazza nella festa di qualche oratorio, in una palestra gelida con musica che non ti piace. E per il cui ingresso hai pure dovuto pagare. Ah, la ragazza mi dirà di no. La festa (sempre parrocchiale) alla quale sei andato con un tuo amico senza conoscere altri, ma lui dopo mezz’ora trova una ragazza e inizia a limonare, mentre tu affronti con serena disperazione la consapevolezza che sono solo le 10, e che prima di mezzanotte e mezza nessuno verrà a prenderti (ah, all’epoca non c’erano i cellulari, quindi se non avevi niente da fare o nessuno con cui parlare, si vedeva proprio bene).
La prima sbronza con gli amici, a base di liquore al mirtillo, Batida, Baileys (ma si può?). Finii la serata vomitando in bagno, con mia madre che mi reggeva la testa mentre piangevo farfugliando oscure autocommiserazioni. Non ho più toccato quei liquori. Il senso di vuoto provato camminando per Padova in attesa dell’alba, aggrappato alla sola presenza di amici che, come me, tiravano a campare senza avere un’idea precisa del senso di quelle cose. Era l’anno della morte di Kurt Cobain, e il grunge faceva scuola.
Con la presunta maturità che l’età adulta dovrebbe portare con sé, il capodanno ha ricevuto l’ultima metamorfosi: da pantofolaio ho abbracciato volentieri i capodanni in famiglia, con cognati e nipoti, nella formula ben rodata della cena, del gioco in scatola e del brindisi. Ho alcuni amici che ancora inseguono il sogno del capodanno perfetto, perdendosi nella vasta pianura tra discoteche e feste private molto lussuose e molto costose. Li rispetto ma non li invidio quando postano le foto delle loro serate molto patinate e molto sorridenti.
Credo che per un adulto San Silvestro dovrebbe riservare uno spazio per la riflessione, per il bilancio e per il rilancio. Cose difficili da fare, in mezzo a sconosciuti e nel caos di una festa. Ancora adesso a mezzanotte si esce e si guardano i fuochi sparati dai vicini. In quel momento, nella penombra, faccio due conti rapidi (non troppo complessi, il prosecco mi piace) e sono contento ogni volta che i piatti della bilancia si piegano verso l’anno che verrà: quando cioè le cose lasciate indietro non mi mancano troppo, e le cose da fare, i progetti, le speranze, mi chiamano, mi spingono ad avere ancora una volta fiducia nel futuro.
Però la maturità porta con sé la condanna del senso del tempo, e l’inevitabile malinconia che ti pervade quando ti rendi conto che un altro anno è alle spalle, e che non ne hai ancora infiniti davanti a te. Quindi a conti fatti rimpiango i tramezzini di mia mamma, le stelle filanti sul terrazzino, e quella stagione della vita in cui sei puro presente, e se proprio guardi al futuro lo fai con la cieca inconsapevolezza degli animali o degli dei, certo che nulla cambierà, che il dolore ti risparmierà, e che, nella grande corsa in avanti, avrai sempre il sole in faccia, e sempre qualcuno pronto a prenderti in braccio, se dovessi inciampare.
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La bellezza sublime di un brivido di paura per arrivare alla Befana, e alla gioia

Il Natale, a rigor di logica, pare avere le carte in regola per essere una festa perfetta: sei in vacanza, mangi come se non ci fosse un domani, e ti arrivano pure dei regali. E invece, da che ne ho memoria, la festa cui sono più legato è senz’ombra di dubbio l’Epifania. Non ho mai riflettuto a fondo sui perché, e devo procedere per ipotesi.
Natale si festeggiava quasi sempre a casa dei nonni ferraresi, e quella trasferta di più giorni, per quanto affascinante, era pur sempre un traffico.
C’erano aspetti cui la memoria si è profondamente legata, come quando mi alzavo prima dei miei genitori, complice l’eccitazione per la giornata speciale, e trovavo mia nonna, in cucina, subito pronta a piazzarmi di fronte a una scodella di caffelatte con il pane ferrarese da inzupparci dentro. Però quello era comunque uno spazio diverso, nel quale, poco o tanto, i nostri comportamenti dovevano essere controllati, e prima che arrivasse il momento del cenone la giornata spesso era interminabile, avvolta nelle nebbie senza fine della bassa, e dovevo consumarla bivaccando tra camera e salotto, o in brevi passeggiate sempre un po’ noiose.
Un altro motivo, più universale, per cui il Natale è una festa sottilmente infida, sono ovviamente i regali. Da noi c’era un bel po’ di confusione: alcuni regali arrivavano da Gesù Bambino, altri dagli zii, dai nonni arrivavano delle banconote (ah, il senso di smodata ricchezza con le diecimila blu di Alessandro Volta in tasca!). Insomma, orientarsi era un problema.
Inoltre a casa mia non vigeva la regola della letterina, anche perché Gesù Bambino è onnisciente, o almeno così dice lui… Per carità, non ho certo avuto un’infanzia da romanzo di Dickens, ma ecco, diciamo che più di una volta le scelte di Gesù Bambino mi sono parse opinabili, con tutto il rispetto. In particolare ancora oggi fremo di giusta indignazione perché io avevo chiesto chiaramente un sub con carica a molla, da mettere nella vasca e da far nuotare avanti e indietro. E invece, porca vacca, è arrivato Ken con un dubbio costume da bagno rosa, per la gioia delle Barbie di mia sorella. Insomma, non di rado a Natale ho versato calde lacrime, facendo i conti con il crudo attrito tra i desideri e le loro realizzazioni leopardianamente deludenti.
La Befana, invece, era spettacolare, e per ragioni che in parte metto a fuoco solo ora. Intanto era una festa pienamente domestica, “nostra” per eccellenza, perché il rito prevedeva che le calze si esplorassero nel lettone dei genitori. In secondo luogo era ben difficile restare delusi, visto che la Befana porta dolci… Beh, quando la Befana tirava a fregare riempiendo una porzione non piccola di calza con un’arancia, o quando la calza mia e quella di mia sorella non erano perfettamente identiche, nascevano brevi dissidi, ma poca roba se messa a confronto con le frustrazioni per i Ken balneari.
In terzo luogo all’Epifania ci attaccavamo con le unghie e i denti, era l’ultimo approdo luminoso prima del nero dolore della scuola, poi bisognava tirare fino a Carnevale. E quella ineliminabile malinconia, accentuata dall’effimera sistemazione dei Magi nel presepe (due settimane sulla mensola sopra il televisore e solo un paio di giorni sul muschio…), la consapevolezza delle cose che finiscono, intrideva la calza e i dolci di un’ansia di vita, di una volontà quasi violenta di fruire di quell’ultimo tempo, di goderne non in senso edonistico, ma direi quasi capitalistico.
Poi la Befana portava con sé tracce di una concretezza primitiva, oggi direi totemica, omerica, che disorientava e ammaliava noi figli della televisione e della luce elettrica. I regali di Natale “arrivavano” non si capiva bene da dove, ma sempre a fine cenone, quand’eri stanco e sazio. La calza che lasciavi in cucina invece veniva riempita da una presenza che lasciava testimonianze inquietanti di sé: il bicchiere di latte e i tre Pan di Stelle erano un omaggio sempre gradito, anche se la Befana spesso lasciava un dito di latte sul fondo del bicchiere e un pezzo di Pan di Stelle (ma ha tante case da passare, diceva mia madre, e in ogni casa deve mangiare quello che le lasciano…).
E soprattutto la Befana (non altri) lasciava sulla tavola in cucina due lettere, una per me e una per mia sorella, con poche righe di bilancio dell’anno, se eravamo stati bravi o se ogni tanto avevamo fatto i capricci, e qualche consiglio su come diventare “più buoni”, missione vaga, complicatissima e mai del tutto compiuta di molte infanzie.
Manca, in verità, l’ultimo, fondamentale ingrediente che rendeva l’Epifania una giornata stupenda: ed era la paura. La Befana mi faceva una paura del diavolo. Gesù Bambino era una presenza così vaga, e così vagamente buona, da non generare la benché minima preoccupazione in me.
Ma la Befana (come credo Santa Lucia o il Vecchione) è una presenza ibrida, che non sai se pienamente santa o in qualche modo venata di sfumature stregonesche o demoniache. Di certo è una vecchia carampana che ti entra in casa in piena notte, e che non devi assolutamente vedere perché sennò ti porta via nel sacco, e, ancora peggio, non ti lascia i dolci.
La notte precedente all’Epifania spesso facevo incubi, mi svegliavo di soprassalto convinto che fosse già mattina, mentre era passata sì e no un’ora da quando eravamo andati a letto, e i miei ancora si aggiravano per casa. Allora mi prendeva l’agitazione, perché dovevo assolutamente rimettermi a dormire al più presto, ma il sonno non veniva.
Ecco scoperta la chiave di volta della bellezza sublime dell’Epifania: come tutti i capolavori della civiltà occidentale, ti fa passare nel terrore prima di giungere alla catarsi.
Ora so che la Befana condivide questo archetipo fondamentale con i Vangeli, la tragedia greca, la Commedia di Dante, l’uccisione del maiale, la rappresentazione del dolore e della bruttezza in Giotto e Caravaggio.
E quindi mi convinco del fatto che, anche a quarant’anni suonati, posso, anzi devo aspettare la Befana con un inestricabile groppo di desiderio e di magòn allo stomaco: è un atto necessario, identitario, culturalmente nobile.
Però, cara Befana, patti chiari e amicizia lunga: tieniti pure le arance, e dacci dentro coi Ciocorì e i Biancorì. —
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