Sulle Dolomiti l'estate più cafona e pericolosa di sempre

Dalla Marmolada al lago di Sorapis sino al Brent de l'Art, impreparazione anche culturale e dabbenaggine stanno conquistando gli ex luoghi per pochi

Il bagno nel lago di Sorapis, Dolomiti bellunesi
Il bagno nel lago di Sorapis, Dolomiti bellunesi

Aumentano i turisti sulle Dolomiti, in questa estate 2018. Aumentano, di conseguenza e in misura quasi esponenziale, i turisti "cafonal". Non è solo questione di decoro, ma anche di sicurezza. La montagna, anziché essere "territorio esclusivo" di una schiera di appassionati che sanno anche come trattarla (che poi significa rispettarla), diventa preda di orde di vacanzieri per lo più low cost, culturalmente low cost, che la trasformano in un parco giochi, un po' come accade fatalmente con Venezia.

Le Dolomiti bellunesi sono una delle mete preferite dal "turismo cafonal". Turisti che salgono in Marmolada con i sandali, altri che fanno il bagno nel lago di Sorapis come fosse la piscina di casa, altri che scambiano le gole del Brent de l'Art per una allegra passeggiatina (anche dopo la tragedia del Pollino), e via di questo passo. Ve lo raccontiamo in questo speciale.
 

Il lago Sorapis si sta consumando. E i cafoni, proprio per questo, dovrebbero esserlo un po’ meno, con un supplemento di civiltà verso un gioiello fragile delle Dolomiti.

È un piccolo angolo di paradiso che, lanciato sui social, sta richiamando appassionati della natura da tutto il mondo, perfino dalla Russia e dal Giappone, come in questi giorni. La maggioranza dei visitatori – a volte 3000 al giorno – è responsabile, alcuni decisamente no.



Sabrina Pais, 50 anni, di Auronzo, gestisce il rifugio Vandelli insieme al marito Emilio Pais (stesso cognome, ma parenti solo da quando si sono sposati). È stata lei a lanciare per prima l’allarme-cafoni ancora l’anno scorso.

Chi sono i cafoni?

«Non vorrei parlarne perché sono pochissimi, ma sono quelli che fanno più rumore, c’è il rischio che enfatizzando le loro “imprese” banalizziamo anche lo splendore di questo angolo. Per favore, quindi, non parlatene».

Non possiamo non farlo, perché la cronaca riferisce che i sentieri in questa valle si stanno trasformando nelle calli di Venezia.

«Con la differenza che a Venezia qualche controllo c’è, qui no, anche se la collaborazione tra il rifugio, il Cai di Venezia, che ne ha la proprietà e le Regole di Cortina, è massima; basta vedere le tabelle che invitano a rispettare l’ambiente».

Ma quanti sono i maleducati che non lo rispettano? E che cosa fanno?

«Sono pochi, ripeto, non sono soltanto i ragazzi che vengono quassù, magari con le infradito, bevono, si tuffano in acqua, piantano la tenda e abbandonano i rifiuti. Sono anche tante persone adulte che, immaginando di trovarsi in città rivendicano i servizi più assurdi e protestano se non li trovano».

Provo a indovinare: i cestini per i rifiuti. Chi ama la montagna sa che deve portarseli a casa.

«E invece non lo sa, o finge di non saperlo. L’altro giorno sono stata quasi insultata da un giovane che ha protestato perché lungo il sentiero e quassù al lago e al rifugio non ha trovato bidoni per le immondizie, neppure cestini. Ho cercato di spiegargli che per rispetto di questo ambiente non possiamo distribuire cestini ovunque, mi ha risposto che questo è un segno di inciviltà. Ho provato a replicargli che la civiltà in quota significa sporcare il meno possibile e, in ogni caso, a noi del rifugio costa un sacco far venire l’elicottero ogni settimana perché porti a valle i bidoni che riempiamo con i rifiuti che ogni sera raccogliamo abbandonati intorno al lago».

Perfino un frigorifero portatile.

«Sì, l’estate scorsa, apparentemente nascosto in un cespuglio. Era pieno di avanzi di consumazioni e di escrementi umani».

Altri esempi di cafonaggine?

«Risponderci in malo modo se chiediamo, ad esempio, di rispettare il diritto di tuffarsi in acqua o di piantare la tenda in particolari spazi. Quassù, tra l’altro, è proibito campeggiare, ma in determinate situazioni è giusto chiudere un occhio, per esempio con gli escursionisti che fanno l’Alta Via. Ma paradossale è protestare perché lungo il sentiero non si trovano fontane o quantomeno ruscelli per poter bere. O prendersela con noi del rifugio se facciamo pagare l’acqua potabile».

Forse perché non si sa che voi vi approvvigionate esclusivamente attraverso l’elicottero e, quindi, tutto ha un costo, anche l’acqua.

«Esattamente. Con qualche eccezione, per esempio verso gli alpinisti che si fermano in rifugio la notte e devono riempire le borracce per le ascensioni del giorno dopo».

I cafoni, dunque, non hanno età. Hanno forse un’identità territoriale?

«Se mi chiede se sono meridionali piuttosto che nordici, metropolitani piuttosto che cittadini dei nostri paesi, le rispondo che no, non c’è nessuna differenza. Neppure tra italiani e stranieri. Per la verità i russi e i giapponesi che sono stati da noi in questi giorni erano gentilissimi. La cafonaggine dipende dall’arroganza che uno ha dentro».

Sarete costretti a installare i tornelli all’ingresso dei due sentieri, come a Venezia?

«Non diciamo stupidaggini. Tutti hanno il diritto di godere di queste bellezze. Il numero chiuso non è una soluzione. Lo sono i possibili controlli. E la prima misura di vigilanza è organizzare i parcheggi a valle. Chi non trova area di sosta evidentemente non può salire» . —

(Francesco Dal Mas)

 

La denuncia dei gestori dei rifugi Castiglioni e Pian dei Fiacconi. «Ragazze in bikini e chi va al bagno entra senza salutare»




Il ghiacciaio della Marmolada non brilla più, non è più lucente. Non ha, insomma, più neve. Ma i cafoni ci sono sempre. Salgono a Punta Penia, la cima più alta del gruppo e fanno la pipì in faccia al ghiacciaio.

«È successo anche che abbiano issato la bandiera della pace sulla croce che c’è lassù», ricorda Aurelio Soraruf, del rifugio Castiglioni e gestore anche della Capanna Penia, «e che abbiano gettato le bucce di banana dietro a qualche sasso immaginando che si consumassero in poco tempo. Non considerando, invece, che a quella temperatura si conservano a lungo».

Raccolta rifiuti al Pian dei Fiacconi, Mountain Wilderness
Raccolta rifiuti al Pian dei Fiacconi, Mountain Wilderness


Escursionisti che magari risalgono il ghiacciaio con le scarpe da ginnastica dopo essere saliti sino a Pian dei Fiacconi sull’ovovia. Guido Trevisan è il gestore del rifugio Pian dei Fiacconi. «Con la cafonaggine», ammette, «mi trovo a fare i conti ogni giorno. Ci sono persone che arrivano, entrano al bar e vanno subito al bagno senza chiedere permesso, tanto meno senza salutare, e se ne tornano fuori senza pagare.

Se gli fai presente che c’è una tariffa di 1 euro, perché qui l’acqua costa, e le pulizie pure, ti rispondono che non siamo a Venezia o in qualche altra grande città». «Se è per questo», aggiunge Soraruf, che ha il rifugio a Passo Fedaia, «ci sono turisti che quando gli proponi le camerate per pagare meno, ti rispondono: “al dormitorio ci vada lei”».

Il lago Fedaia
Il lago Fedaia


Al Passo Fedaia c’è uno straordinario lago che, a quest’altezza, ha l’acqua ovviamente fredda, ma anche quest’estate c’è chi si è tuffato dentro e poi si è messo a prendere il sole, come fosse a Caorle.

L’aspetto più pericoloso di questa cultura della superficialità è comunque quello delle arrampicate o dell’escursionismo d’alta quota.

«Mi trovo spesso a raccomandare a chi si inoltra sul ghiacciaio, tra l’altro in questo periodo molto pericoloso perché manca la neve», testimonia Trevisan, «che bisogna avere non solo gli scarponi adatti, ma anche l’attrezzatura più consona: essere muniti di ramponi, possibilmente anche di piccozza, e di corde. Invece, vediamo sempre più spesso che si sale con i bermuda e in canottiera». Ecco perché almeno due, tre volte la settimana quassù vola l’eliambulanza del Suem per i soccorsi in quota.

La stagione più a rischio di comportamenti incivili è l’estate. Lo scialpinismo in ghiacciaio è molto praticato ma, confermano sia Trevisan che Soraruf, gli appassionati di questa disciplina hanno comportamenti senz’altro rispettosi dell’ambiente.

«D’estate, invece», sottolinea Trevisan, «si arriva quassù e ci si sente in diritto di prendersi quelle libertà che in città sono precluse. Ecco dunque le turiste stendersi in bikini sulla sdraio, davanti al rifugio, per prendere il sole, magari mentre arrivano alpinisti imbottiti nelle giacche a vento».

il rifugio Tissi ai piedi del Civetta
il rifugio Tissi ai piedi del Civetta

Ai rifugi Tissi e Torrani: «Pochi indisciplinati: il Civetta non perdona»

«La parete del Civetta è troppo severa per fare i cafoni». Così Valter Bellenzier dal rifugio Tissi che gestisce come un nido d’aquila. «Quassù arrivano escursionisti stanchi, dopo lunghe ore di camminata, e non hanno voglia di fare i superficiali. E quando ci provano, solo in rari casi, sappiamo come prenderli».

Ma ci sono scalatori – chiediamo – che si fiondano su qualche classica come fosse una palestra? «Qualcuno di loro lo trovi sempre, ma sulle ferrate. Ancora non in parete. Anche per la semplice ragione che ci vogliono due giorni per uscire in vetta».

Mentre le cordate arrampicano, giù in valle c’è quel gioiello che risponde al nome del lago Coldai. Si tratta di un’altra meta classica dell’escursionismo dolomitico, ma – a sentire i responsabili del rifugio Coldai – non patisce gli eccessi di altri siti. Sono numerosi coloro che prendono il sole e assumono i comportamenti tipici della spiaggia. Ci sono i piccoli cafoni che si tuffano, nonostante i divieti, ma tutto finisce lì. Le tracce del popolo vacanziero si riducono a rari rifiuti, che peraltro il personale del Coldai si premura a raccogliere.

E lassù al rifugio Torrani? È il più alto delle Dolomiti. «Qualche lattina abbandonata la troviamo perfino quassù», ammette Venturino De Bona. «Siamo a 3 mila metri e la fatica incide sui comportamenti che dovrebbero essere più virtuosi. Ma quello che fa specie è constatare la sottovalutazione nell’abbigliamento e nelle attrezzature. Qualcuno non ha piena consapevolezza di cosa significhi fare una ferrata sul Civetta».
(FDM)

 

L’allarme del sindaco di Trichiana: «Se arriva un acquazzone in quota, in dieci minuti l’acqua sale fino a due metri»



Il sindaco di Trichiana è preoccupato: «Prima che ci scappi il morto bisogna prendere provvedimenti molto seri». Fiorenza Da Canal parla di “rischio Pollino” in una delle zone di maggiore attrattività turistica delle Prealpi bellunesi, ai confini con il Trevigiano: il canyon dei Brent de l’Art.

«I Brent sono una fotocopia perfetta di Pollino, teatro della tragedia di qualche giorno fa. Se arriva un acquazzone in quota, in dieci minuti l’acqua sale fino a 2 metri. Se una persona si trova lungo la forra è come se si mettesse un topo in bocca al gatto».

Al canyon del Brent de l’Art si accede partendo dall’abitato di Sant’Antonio Tortal, alla Grotta azzurra (altra splendida area naturale “scoperta” da pochi mesi) dall’area del Castello di Zumelle. Due gioielli della natura a cui si può arrivare abbastanza facilmente, in quanto vicini a strade e centri abitati.

Ed è questa accessibilità a far pensare alle persone che per recarsi alla scoperta delle due bellezze della Sinistra Piave non servano abbigliamento e calzature da escursione. Ma è vero il contrario. Lo dimostra un fatto di cronaca: venerdì scorso il Soccorso Alpino è intervenuto ai Brent per recuperare un infortunato.

«Un recupero non proprio agevole, vista la conformazione dei luoghi», spiega il sindaco Fiorenza Da Canal. «Facendo tutti gli scongiuri, non è escluso possa capitare anche qualcosa di peggio. È indispensabile correre ai ripari».



l canyon dei Brent sta avendo dallo scorso anno una grandissima risonanza sui social network. Lo stesso è accaduto per la Grotta azzurra di Mel, specie da quando il governatore del Veneto Luca Zaia ha condiviso su Facebook le foto dell’incantevole luogo. «Questo di per sé non è un male», aggiunge la Da Canal, «ma il problema è che abbiamo perso il controllo della situazione. C’è un’invasione pazzesca di turisti, nei fine settimana e nei giorni di ferie».

«Sono però diversi gli aspetti che mi fanno arrabbiare, e molto», continua, «chi non rispetta la proprietà altrui, parcheggiando in aree private; le persone che deturpano l’ambiente, lasciando rifiuti ed escrementi di cane. Ma a mandarmi su tutte le furie, soprattutto, è la mancanza di buon senso e responsabilità di coloro che si addentrano nei luoghi senza competenza, con le ciabatte da mare e privi di qualsiasi conoscenza del sito. Quanti sanno che la roccia dei Brent è particolare e friabile e molto scivolosa?».

Servono dunque provvedimenti. Proprio per parlare delle misure da adottare sindaco di Trichiana e Polizia locale saranno lunedì 27 a Belluno per una riunione in Prefettura. Presente anche il sindaco di Mel, Stefano Cesa, che sta vivendo le stesse apprensioni.

«Siamo molto preoccupati», commenta, «c’è l’inconsapevolezza di molti turisti, che accedono all’area senza minimamente riflettere sui rischi. Ci troviamo in uno stato di impotenza, in quanto è molto complesso controllarne la fruizione. Se si verificano degli incidenti, anche i soccorsi non sono semplici. Bisogna fare tavoli di confronto e conferenze dei servizi».

(Martina Reolon)


 

La prossima settimana i sindaci di Trichiana e Mel incontreranno i responsabili del Soccorso Alpino, che daranno suggerimenti e indicazioni sulle caratteristiche che deve avere la segnaletica all’accesso e lungo i percorsi.

Sappiamo che il Comune (e quello di Mel per la Grotta azzurra) ha già provveduto a posizionare la cartellonistica. Come intendete muovervi?

«Sì, la segnaletica è stata collocata, - spiega il sindaco Da Canal - ma a Trichiana è provvisoria. Metteremo quella definitiva dopo l’incontro con il Soccorso Alpino. C’è poi l’ordinanza a firma della sottoscritta e trasmessa a Polizia locale, comando dei Carabinieri e ufficio tecnico comunale, che fissa divieti, obblighi e prescrizioni. Ma non basta».

Cos’altro si può fare?

«Servono misure urgenti. L’amministrazione intanto sta mettendo un enorme impegno fisico e finanziario sul sito naturalistico. I visitatori (e il turismo è finora solo mordi e fuggi) devono avere buon senso e responsabilità. E prima di entrare nei Brent bisogna informarsi sulle condizioni meteo: al giorno d’oggi ci sono tutti i mezzi per farlo. Ma ribadisco pure un altro appello: sono indispensabili anche educazione e rispetto dell’ambiente, altrimenti si corre il rischio di distruggere in pochissimo tempo un lavoro della natura durato millenni».

Quali sono le norme di sicurezza attualmente vigenti?

«Abbiamo fatto un preciso elenco, a cui stiamo dando ampia diffusione. È vietato accedere al sentiero che porta ai Brent con condizioni meteo avverse; abbandonare rifiuti e accendere fuochi; correre lungo i sentieri; fare il bagno e tuffarsi nei torrenti (ad esclusione delle attività di canyoning autorizzate); fare assemblamenti lungo i percorsi. Si aggiungono il divieto di transito con bici e passeggini, di raccolta di fiori, piante e rocce. È vietato urlare o fare schiamazzi tali da deturpare l’habitat naturale. Vige poi l’obbligo di visitare il sito solo a piedi e con calzature adeguate (scarponcini da montagna), oltre che di portare i cani a guinzaglio, raccogliendo poi le deiezioni».  (M.R.)

 

Effetto Facebook: tutto diventa sfida

Davide Alberti
Davide Alberti


Sono capaci di instillare in migliaia di persone la curiosità, la passione, l’amore per la montagna. Ma, allo stesso tempo, i social network rischiano di fornirne una versione edulcorata, priva dei rischi che la caratterizzano: nessuno, o quasi, posta su Facebook la foto di quella volta che ha dovuto rinunciare all’escursione perché troppo difficile o perché il meteo non ha aiutato. «Invogliare i turisti a venire in montagna è un bene ma bisogna anche istruirli» spiega Davide Alberti, presidente delle guide alpine del Veneto. Professionista dal 1996, in oltre vent’anni ha visto cambiare radicalmente l’approccio alle cime.

Ogni estate le montagne sono prese d’assalto: come si è trasformato il turismo in quota?

«Stiamo vivendo gli anni dell’outdoor. Ora vanno per la maggiore il trekking, le alte vie, le mountain bike. C’è ancora chi va in ferrata ma oggi il grosso del mercato sta nel trekking: è alla portata di tutti, non ha difficoltà tecniche e basta un’attrezzatura minima, che si trova anche a poco prezzo. Mentre nelle ferrate questo ha portato ad un miglioramento nelle attrezzature - una volta i turisti si presentavano con un cordino legato alla pancia, oggi tutti hanno imbragatura, dissipatore e casco - nel trekking questo non sempre si accompagna ad un’adeguata preparazione».

In questa trasformazione che ruolo hanno i social network?

«Una volta i sentieri impervi o le gite meno conosciute erano appannaggio dei locali. Ora, con internet e i social network, tutti hanno a disposizione queste conoscenze».

Insomma, i social network stanno diventando i vostri diretti concorrenti.

«Non proprio, perché passano una notizia sbagliata. Tutto viene descritto in modo bello, positivo, e tra utenti scatta la sfida a chi va a vedere quel luogo. Ma non si fanno i conti con i pericoli della montagna: il meteo è un fattore fondamentale capace di cambiare volto ad un’escursione. Anche la preparazione fisica viene presa sottogamba. Magari si scelgono escursioni di ore ed ore senza cognizione di quello a cui vanno incontro. E alla fine ci si trova nei pasticci».

Anche gli impianti di risalita hanno contribuito a questo cambio di percezione?

«Non direi, anzi. Proprio grazie agli impianti aperti in estate c’è un’importante quota di mercato, tanto ormai rimangono aperti anche rifugi che tradizionalmente lavoravano solo d’inverno. Senza contare che la possibilità di portare in quota le bici porta nuova linfa al settore: i bike park stanno funzionando benissimo. La causa di questo fenomeno è che le persone non hanno avuto le adeguate informazioni».

E chi dovrebbe dargliele? Gli uffici turistici? Gli albergatori?

«Credo che sia una strada difficile, visto che non è mai facile mettersi d’accordo e trovare l’adesione di tutti. Secondo me bisogna iniziare a lavorare già dalle scuole, in modo che i ragazzi crescano con queste nozioni. È una questione di mentalità: ci sono persone che si informano, che arrivano preparatissime. Altre no. Bisogna lavorare su questo aspetto».

Quando si parla di montagna e social network, impossibile non pensare al lago di Sorapis e al caos del turismo cafone.

«È l’esempio classico: fino a qualche anno fa nessuno sapeva della sua esistenza, ora sembra di stare in spiaggia a Jesolo. Tutto grazie ai social che l’hanno pubblicizzato. Pare che tutti debbano andare lì ma quel percorso è difficile: ho visto persone slegate, con bambini piccoli, con borsetta e tacchi. Per non parlare di chi si fa il bagno o lascia i rifiuti. Invogliare le persone a frequentare la montagna è un bene perché queste zone vivono di turismo ma ci vorrebbero dei controlli, magari dei divieti. O un accesso a fasce orarie: altrimenti di quella ed altre perle non resterà molto». (Valentina Voi)

I peggiori? Gli italiani, of course

I turisti stranieri? «Preparatissimi e rispettosi delle regole». Questa, secondo Davide Alberti, la grande differenza con gli escursionisti italiani.

«Non voglio generalizzare, non tutti gli italiani sono impreparati e non tutti gli stranieri sono informati. Ma solitamente all’estero c’è un approccio diverso verso la montagna e le sue difficoltà, il rispetto delle regole è un modo di vivere».

E moltidi loro si affidano alle guide alpini, i professionisti della montagna. Ma chi sono le guide alpine? Hanno un albo professionale, proprio come medici e avvocati. E devono quindi sottostare a regolamenti disciplinari e corsi di aggiornamento. In Veneto le guide alpine operative sono 150, di cui circa metà arriva dal Bellunese.

Un mestiere affascinante, conquistato dopo un lungo cammino: il corso dura due anni ma solo dopo quattro si entra nell’albo che consente di far scoprire ai clienti tutte le declinazioni della montagna: estate, inverno, con i piedi per terra o sospesi su vertiginose pareti verticali. Il comune denominatore, però, è la sicurezza del cliente.

La nuova tendenza: il boom degli accompagnatori di media montagna

Nel giro di pochi anni ha già diplomato una cinquantina di professionisti, provenienti soprattutto dalle Prealpi. Il collegio delle guide alpine venete sta facendo spazio a una nuova figura professionale: l’accompagnatore di media montagna. «Sono i nostri cugini» spiega Alberti, presidente delle guide venete, «è una professione che in Veneto è stata istituita nel 2014 e siamo già alla terza selezione di ragazzi».

Mentre la guida alpina necessita di una specializzazione di alto livello nel campo dello sci alpinismo, dell’arrampicata su roccia e in quella su ghiaccio, il percorso per diventare accompagnatore di media montagna è più semplice (ed economico).

I due professionisti lavorano su un territorio diverso» spiega Alberti, «la guida alpina opera in montagna a 360 gradi, ad eccezione della pista battuta che è appannaggio dei maestri di sci, l’accompagnatore di media montagna è specializzato in trekking ed escursionismo e non può operare dove è necessaria attrezzatura alpinistica».

La montagna, però, offre opportunità per tutti. «Il trekking ora va molto» continua il presidente del collegio, «e quest’anno abbiamo avuto tantissimi ragazzi che hanno partecipato al bando: abbiamo dovuto operare una scrematura prendendo 25 candidati che arrivano da varie parti del Veneto, specialmente dalle Prealpi. Molti sono specializzati in geologia, botanica o in storia - in particolar modo sulle vicende belliche - e accompagnano il cliente in un percorso che non è solo escursionistico ma anche culturale. Mettendo, però, al primo posto la sicurezza proprio come fanno le guide alpine».  (v.v)


Ci mancavano solo i droni

Alvise Bagagiolo, pilota di drone con patentino
Alvise Bagagiolo, pilota di drone con patentino


Dopo l’assalto alle città – da Venezia a Padova, passando per Treviso – la mania dei droni sale sulle Dolomiti e mette a rischio le eliambulanze e gli elicotteri che per lavoro o per turismo attraversano le valli alpine.

«Questi droni, così piccoli, non si vedono – è il grido d’allarme di Markus Kostner, di Elikos e pilota dell’Aiut Alpin di Bolzano –. Solo qualche giorno fa mi ha chiamato un collega mettendomi in guardia da questi “ragni volanti” nel cielo della Val Gardena contro i quali aveva appena rischiato di sbattere. In Svizzera un elicottero del soccorso alpino è atterrato con danni pesanti». Verso le Tre Cime di Lavaredo, ai piedi del Civetta o della Marmolada, si moltiplicano gli appassionati delle riprese fotografiche o video attraverso un drone che si porta semplicemente nello zaino, accanto alla borraccia.

«Arriva improvvisamente l’elicottero del Suem per un soccorso e loro nemmeno si spostano» conferma, preoccupato, Alex Barattin, coordinatore bellunese del soccorso alpino.



È recente, a Venezia, il sequestro di un drone che volava sul Palazzo Ducale e si stava trasferendo verso il campanile. Altro sequestro l’anno scorso. Due anni fa, in piazza San Marco, era precipitato un DJI Phantom 3. Già nel 2014, in centro a Treviso, un drone si era schiantato tra i tavoli di un bar. Ed ecco l’ultima frontiera dello stalking: un 53enne di Saonara, nel Padovano, ha spiato con ben due droni la donna che amava, evidentemente non ricambiato. A Ferragosto, il sindaco di Santa Lucia di Piave, Riccardo Szumski ha riversato su Fb il suo disagio per un drone che lo sorvolava mentre nel giardino di casa cucinava una grigliata.

Venezia è diventata no-fly zone, salvo che in alcuni casi eccezionali (riprese Rai e Mediaset): centellinate le autorizzazioni di Prefettura, Comune ed Anac. A Treviso e a Padova i centri storici sono iper-protetti; è consentito l’uso degli apparecchi sotto i 300 grammi, ma solo per altezze inferiori ai 150 metri e, comunque, in aree libere e dove è garantita la privacy.

In quota, invece, le riprese col drone fanno tendenza. «Sono sempre più numerosi i turisti, piccoli e grandi, che arrivano da ogni parte del mondo, portandosi dietro le loro apparecchiature – spiega Kostner – per rifare i video delle più belle pareti dolomitiche che a casa hanno visto in google. Salgono ai piedi di queste pareti e lanciano il drone, fino anche a 2 mila metri d’altezza. Lo lasciano volteggiare anche quando vedono l’elicottero. Loro ci vedono, noi no, per cui ci imbattiamo in loro all’improvviso ed è pericoloso».

Barattin ricorda che ci sono giorni, come questi, in cui le operazioni di soccorso oscillano tra le 250 e le 300; numerose richiedono l’intervento dell’eliambulanza. Il pericolo, dunque, è costante.

«Lo è anche per gli alpinisti che hanno bisogno di concentrazione per salire sulle pareti più difficili, che sono anche le più belle da riprendere. In pericolo anche gli appassionati del volo a vela». «Chi ha il patentino o il brevetto, raramente ci mette in difficoltà, ma il 90% dei “dronisti”– conclude l’elicotterista di Elikos – improvvisa le uscite e non chiede autorizzazioni».

Il pilota: "Serve un corso, molti non lo fanno"


 

Sono gli stranieri i piloti più pericolosi di droni. Il motivo? «Non conoscono le severe regole Enac» risponde Alvise Bagagiolo, pilota Sapr (Sistemi aeromobili a pilotaggio remoto), quindi con tanto di brevetto, che ha costituito un gruppo Facebook con ben 2000 iscritti.

«Il nostro mondo è regolamentato, ma il 90% degli appassionati – ammette Bagagiolo – si fa un baffo dei vincoli e delle autorizzazioni. Chi arriva dall’estero non sa, aspettiamo il 2022 quando, si dice, l’UE dovrebbe emanare una legislazione a livello europeo, per aspetti un po’ più permissiva di quella italiana».

Che cosa è vietato oggi ad un “dronista”?

«È vietato usare questa apparecchiatura a Venezia. Solo in casi eccezionali il Comune, la Prefettura e l’Enac concedono dei permessi per determinate ore e in giorni prestabiliti. A Treviso, Padova e in altre città, le no fly zones sono più ristrette, ma comunque il drone può essere usato solo previa autorizzazione».

Le richieste possono essere avanzate, immaginiamo, solo da chi ha il brevetto di pilota.

«È così. E per farlo è necessario un lungo corso, con costi che arrivano a 1500 euro. Le scuole sono numerose».

La maggior parte di chi va in negozio e si fa questo regalo, anche se è un bambino, deve comunque farsi la patente?

«Il 90% non la fa. È anche vero che da breve tempo tutti possono disporre di un drone sotto i 300 grammi e farlo volare fino ad un’altezza di 160 metri, ben s’intende osservando i limiti imposti dall’Enac e, ovviamente, facendosi un’assicurazione per autotutela; la scrupolosa osservanza della no fly zone, ad esempio, i 5 km di distanza dalle piste aeree, la lontananza dai luoghi sensibili (stazioni dei CC e delle Forze dell’Ordine, caserme, ospedali, carceri) e rispetto della privacy».

Che cosa significa quest’ultimo rispetto?

«Non si può, evidentemente, filmare una persona mentre fa il barbecue, anche se è una figura pubblica come un sindaco, neppure, al limite, un alpinista impegnato in una scalata. Ma gli esempi possono essere numerosi altri».

È pur vero che è difficile trovare un drone dal peso inferiore ai 300 grammi.

«Infatti lo si acquista intorno ai 400 o più grammi e poi lo si alleggerisce. Si tenga conto che un apparecchio di costo medio fra i 600 ed i 700 euro, si possono spendere fino a 400 euro per alleggerirlo. Per contro, c’è chi acquista un drone base per poi potenziarlo con qualche elaborazione, magari per farlo salire fino a 2000 metri di altezza, come sta avvenendo con l’ultima moda delle riprese in montagna. Di media, infatti, queste apparecchiature salgono a 500 metri e si allontanano fino a 4 km, ma con qualche trucco arrivano oltre».

Il sindaco-deputato: Luca De Carlo

Luca De Carlo
Luca De Carlo


Le “grandi ammucchiate” di agosto ci lasciano un messaggio chiaro: la montagna va gestita. E per gestirla occorrono: pianificazione, organizzazione, volontà e sì, anche risorse. Non è pensabile infatti che migliaia di persone , la stragrande maggioranza delle quali sicuramente civili, possano affollare le nostre montagne senza aver dato loro un minimo di corretta informazione e anche, quando serve, educazione.

Premesso tutto ciò, siamo oggi nella condizione di scegliere che turista avere? Oppure la limitatezza temporale della “stagione”, il clima che condiziona l’attività in quota , i costi più alti che le nostre imprese devono sopportare, uniti ad un fisco che in Italia schiaccia e mortifica gli imprenditori, non consentono di scegliere, ma costringono gli operatori a “pigliare tutto quello che passa il convento” ?

Questo è il tema fondamentale, anche perché, se è vero che a giugno, luglio e settembre i frequentatori della montagna sono per lo più appassionati, è altrettanto vero che in agosto il turismo cambia, si massifica. I veri appassionati lasciano il posto a famiglie che scappano dal caldo afoso delle città attratte dalla possibilità di vivere un’esperienza alla Mauro Corona. Il tutto snaturando la vera bellezza della montagna, che è fatica, silenzio e contemplazione.

Non accade solo in montagna che grandi quantità di persone di affollino in luoghi ristretti, solo che da noi l’ambiente è più difficile, più angusto e impervio con tutte le difficoltà che ne derivano. Si pensi solo agli approvvigionamenti o allo smaltimento dei rifiuti nei rifugi alpini.

Allora che fare? Accanto ad azioni locali, che come sindaco e presidente dell’Unione Montana tento da anni, vanno studiate delle strategie per preservare la montagna, ma anche chi ci vive e chi ci fa impresa! Perché un conto è essere colpiti dalla sindrome di Heidi e voler passare settimana tra prati curati e caprette come vorrebbe un certo ambientalismo che non conosce l’uso del rastrello e della “roncola”, bel altro conto è rimanere abbarbicati in quota 365 giorni l’anno.

E allora pensiamo veramente a una tassazione agevolata sopra una certa altitudine, vincolata al rispetto di determinate regole di servizio ed ecosostenibilità. Non contributi spot, ma un serio piano fiscale per le aree non disagiate, perché mi offendo quando ci si definisce così , ma per le aree montane di tutta Italia.

Regole uniformi dalle Alpi agli Appennini. Alleggerendo il fardello fiscale potremmo permetterci di scegliere che turista avere e alzare il livello della nostra offerta, puntando su un turismo, e quindi su un turista, più consapevole della bellezza ma anche della fragilità dell’ambiente che lo ospita.

Per farlo ci vuole la volontà di vedere la montagna sotto un aspetto differente e ci vogliono risorse economiche da dedicarle. Si chiama federalismo fiscale ? Può essere. L’unica cosa certa, però, è che ci vogliono i soldini.

(sindaco di Calzalzo, deputato di Fratelli d'Italia)

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