Tra la vita e la morte in terapia intensiva. La mia esperienza e il rapporto con i “vivi”

Coronavirus in Veneto. Cosa si prova quando ci si ritrova su un letto rianimatorio? Cosa vuol dire essere intubati, sentire i rumori dei nostri parametri vitali cambiare? Cosa si sogna? Eccolo qui spiegato in prima persona
In questi giorni ho ricevuto molti messaggi nei quali mi si chiedeva come stavo e mi si raccomandava di usare tutte le cautele per non contrarre il corona virus. Due di questi provenivano da un paio di quelle persone speciali che si prendono cura di noi quando ci capita di finire in terapia intensiva, ove sono stato ben 18 anni fa per alcuni mesi della mia vita.
 
Eppure quel medico e quella infermiera si ricordano ancora di me e io mi ricordo di loro, soprattutto della sensazione di sicurezza che riuscivano e riescono ancora ad infondermi.
 
Non si tratta della normale fiducia che può instaurarsi fra paziente ed operatore sanitario, ma di ben altro, perché loro ed i loro colleghi nel periodo trascorso in quel reparto sono stati parte della mia famiglia e continueranno ad esserlo per sempre, non si spiegherebbe altrimenti perché pur essendo in prima linea a combattere questo nemico invisibile che minaccia le nostre vite abbiano trovato pure il tempo di preoccuparsi per la mia salute. 
 
In intensiva, è bene tutti lo sappiano, anche se non auguro a nessuno di provare questa esperienza, non ci si va accompagnati dai propri cari ma da soli, ed in questa solitudine spesso capita di affrontare situazioni vicine al limite più estremo al quale è consentito ad un essere umano spingersi nel corso della propria esistenza.
 
Nell'attuale periodo in quel reparto, come dice il Presidente del Veneto Zaia per chiarire il concetto a chi non vuole capirlo, «ci si ritrova con un tubo in bocca», perché il nostro corpo non è in grado di svolgere la più semplice ma anche la più essenziale delle sue funzioni: respirare!!
 
A farlo per noi ci deve pensare uno di quei respiratori e/o ventilatori polmonari ora introvabili in tutto il mondo perché l’industria biomedicale sembra si sia dimenticata della loro importanza. Non si riesce ad essere e rimanere intubati in uno stato vigile, bisogna per forza venga indotto nel paziente il coma farmacologico, ed a quelli che potessero anche immaginarla come un interessante esperienza onirica sono pronto ad assicurare che non lo è.
 
Nessuna sensazione di pace interiore o visioni di luce, ma uno stato di catalessi dove gli incubi prevalgono sui sogni, perché il subconscio percepisce la sofferenza del corpo e la sua lotta feroce contro la malattia, assorbendo anzi empaticamente anche il dolore di quelli che giacciono a fianco nella stessa situazione. 
 
È ancor meno piacevole la permanenza quando la patologia per la quale ci si trova in terapia intensiva, circondati da macchine pronte ad emettere i suoni più inquietanti mentre rivelano i nostri parametri vitali, coinvolge in un qualsiasi modo l’apparato respiratorio.
 
Nel mio contesto infatti, avendo subito una lesione midollare a livello di cervicale, sono passato dall’intubazione alla tracheotomia, cioè alla pratica di una piccola incisione in corrispondenza della trachea entro la quale viene inserita una cannula che favorisce l’afflusso d’aria verso i polmoni. In questi casi le sedimentazioni bronchiali che non riescono a venir eliminate tramite la tosse gorgogliano in trachea mosse dall’aria immessa dal ventilatore, procurando una sensazione di soffocamento che si ripete più volte nell’arco delle 24 ore, sia in fase di veglia che di riposo, generando la continua ed assillante paura di morire, rimanendo in preda ad un panico incontrollato ed incontrollabile mentre tutti i sensi sembrano annaspare freneticamente in cerca d'ossigeno.
 
Fortunatamente la mia non era una patologia infettiva per cui gli angeli che mi accudivano avevano un volto riconoscibile, non erano bardati da tute spaziali anti contaminazione come quelli che operano nei centri covid-19, avevano dei turni di lavoro normali ed il tempo di dedicarmi il sollievo di una voce carezzevole e non ovattata e deformata da mascherine anch’esse introvabili che segnano a sangue il volto di chi le indossa, ma soprattutto non rischiavano giornalmente come accade ora il dramma di trovarsi a curare o veder morire un collega che fino a qualche giorno prima lavorava al loro fianco.
 
Un operatore sanitario, sia che lavori in ospedale o in una casa di riposo, sa quando un paziente ha la sorte segnata eppure continua a curarlo in ottemperanza al giuramento di Ippocrate. Chi svolge questa professione non si abitua alla morte ma impara ad accettarla, però quando ciò accade con una frequenza inusitata o in modo cruento ed aggressivo vive la perdita come una sconfitta non solo professionale ma anche umana, perché è un figlio, un padre, un fratello o un nonno… un familiare che potrebbe essere il suo che se ne va. 
 
Ecco il motivo per cui mi permetto di rilanciare il messaggio che ci viene ripetuto assiduamente da un mese a questa parte: rispettiamo le regole, restiamo a casa se non abbiamo esigenze indifferibili. Ne va non solo della nostra vita e quella di tutte le categorie di persone che sono comunque costrette a lavorare per noi, ma anche della sopravvivenza dell’intera macchina del servizio sanitario, ancora funzionante, ma ormai allo stremo delle forze soprattutto in ambito psicologico per cui l'innesto di nuove leve può lenire la fatica ma non il disagio e il dolore. 
 
Aiutiamoli ad aiutarci perché in questa battaglia contro un morbo invisibile che nutrendosi dei nostri corpi è balzato improvvisamente in cima alla catena alimentare, medici ed infermieri sono i familiari in grado di accompagnare noi o i nostri cari verso la guarigione o la morte se è destino che ciò accada in una terapia intensiva o in una casa di riposo interdetta alle visite per pandemia.
 
State a casa e se proprio vi annoiate donate qualcosa perché dopo tutto questo nulla sarà più come prima, ed esaurita la carica adrenalinica che ora li anima saremo noi a doverci prendere un po' più cura di chi ci cura.
 
#andràtuttobene #torneremoadabbracciarciancora
 
Daniele Furlan
coord. comitato melograno
 

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