Venezia, il figlio di un militare italiano prigioniero dei nazisti fa causa alla Germania

La Repubblica federale tedesca citata per i danni subiti dal papà: crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo la Liberazione fu soggetto a cure psichiatriche per 35 anni

Roberta De Rossi
Soldati italiani rastrellati dai tedeschi dopo l'8 Settembre 1943
Soldati italiani rastrellati dai tedeschi dopo l'8 Settembre 1943

VENEZIA. Un signore trevigiano - figlio di un veneziano deportato dai nazisti - ha fatto causa alla Repubblica federale di Germania, “soggetto di diritto internazionale in continuità giuridica con il Terzo Reich”, chiedendo 200 mila euro di danni (più 70 anni di interessi) per i crimini di guerra e contro l’umanità patiti dal padre.

Nei giorni scorsi, gli avvocati Matteo Miatto e Marco Seppi, hanno notificato il ricorso all’Ambasciata tedesca a Roma e al ministero delle Finanze italiano, citandoli a giudizio per il 23 febbraio.

Cosa era successo allora e perché il ricorso proprio oggi?

Negli anni del Regime fascista, l’allora giovanissimo falegname veneziano venne chiamato alle armi nel 1940 e arruolato nel 56mo Fanteria di stanza a Mestre, con il grado di caporale. Catturato dai nazisti già nei giorni successivi all’Armistizio dell’8 settembre 1943, venne deportato ai lavori forzati al campo Stammlager XI-A di Altengrabow: qui vennero internati 55 mila soldati prigionieri di guerra di 13 diversi paesi. Sono stati 600 mila, in tutti, gli Imi: italiani militari internati.

“Il trattamento riservato ai prigionieri italiani, considerati traditori badogliani”, si legge nell’atto di citazione presentato dagli avvocato Sappi e Piatto, “è purtroppo tristemente noto. Lo stesso giorno della cattura, i soldati della Wehrmacht lo caricarono - insieme a una sessantina di commilitoni catturati - su un vagone ferroviario adibito al trasporto bestiame e, dopo 5 giorni di viaggio, veniva deportato in Germania, nel campo di prigionia a circa 35 chilometri da Magdeburgo”.

Reclutato al lavoro tra gli “schiavi di Hitler” al servizio delle aziende belliche - scrivono ancora i legali - venne sottoposto “a turni di lavoro massacranti di 12 ore sotto il costante pericolo di essere colpiti dalle bombe alleate, alle quali si aggiungevano le marce di decine di chilometri per raggiungere all’alba il luogo dell’intervento e rientrare al campo a sera inoltrata, sotto la sorveglianza dei soldati tedeschi”.

Per tetto, una baracca infestata di pidocchi, dove vivevano  60-80 persone: immagini tristemente note. Addosso, sempre e solo la stessa divisa con cui era stato catturato, per 2 anni. Per cibo, un tozzo di pane e un brodo. Ogni tanto, la consegna di un pacco dalla famiglia.

La liberazione arriva l’11 settembre 1945, con l’intervento degli alleati.

L’uomo torna a casa, lavora ai campi, si sposa, ha due figli: ma le notti sono insonni, gli incubi ricorrenti. Per 35 anni - scrivono ancora i legali - è stato sottoposto a cure psichiatriche all’Ospedale civile di Venezia, per disturbo post traumatico: insignito di tre croci al merito di guerra per non aver mai collaborato con i nazisti, l’uomo è morto nel 2010.

Ora il figlio, che abita a Treviso, ha deciso di fare causa alla Germania - spiegano i suoi avvocati - quale erede del padre, “in conseguenza della sua cattura, deportazione, internamento e sottoesposizione ai lavori forzati da parte dell’esercito tedesco senza riconoscimento alcuno dei diritti in allora previsti dal diritto internazionale umanitario”.

Perché ora?

Perché il governo Draghi ha istituito un “Fondo per il ristoro dei danni subiti dalle vittime di crimini di guerra contro l’umanità compiuti sul territorio italiano o in danno di italiani”, mettendo a disposizione un fondo di circa 50 milioni di euro complessivi, fino al 2026. A condizione che le domande arrivino entro 180 giorni dalla promulgazione del decreto, che è di aprile: scadenza, dunque, ottobre.

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