Vigonza, Tacchetto si racconta: «Con i kalashnikov alla testa. Fuggiti nel deserto grazie alle stelle»
VIGONZA. Luca Tacchetto parla, a 20 giorni dalla sua liberazione e della compagna Edith Blais in Mali, parla del lungo rapimento durato 15 mesi iniziato il 15 dicembre 2018 in Burkina Faso.
Martedì è giunta anche la notizia che pure Padre Maccalli, insieme a Nicola Chiacchio, è segregato in Mali. Un’anologia che riporta all’architetto di Vigonza.
«Ho letto di loro ma non li conosco né li abbiamo visti durante il periodo in cui sono stato tenuto prigioniero con la mia compagna. Padre Maccalli è stato preso in un altro stato, in Niger, non so se questo conti qualcosa. Per quanto riguarda il luogo del sequestro, il Mali è tanto grande, ancora di più il deserto e quanto ti prendono ti fanno fare giri infiniti bendato. Alla fine non si capisce più niente. Io e Edith siamo stati prigionieri assieme e per un periodo divisi. Non ho mai visto nessun altro che i nostri sequestratori: ci tenevano costantemente sotto tiro. La notte si davano il turno e uno si metteva davanti a noi».
Anche padre Maccalli è stato rapito da jihadisti.
«Dire jihadisti è un generico, è come dire combattenti. Potrebbero essere di qualsiasi organizzazione. Sono contento che perlomeno sia vivo perché mi sono reso conto, una volta tornato a casa, di essere sparito. Purtroppo quando si è la non si sa quello che trapela. Per mesi si sparisce e poi improvvisamente si hanno notizie. I miei genitori non sapevano niente, io sono scomparso e basta. Io sapevo di essere vivo ma non potevo sapere cosa succedeva qui. Ora non so da dove venga la notizia sul padre Maccalli, chi l’ha mandata, chi l’ha fatta arrivare. Questa è la domanda, capire come ha fatto ad arrivare e perché. Spero che resista come ho fatto io. Non mi sono mai abbattuto».
Cosa ha imparato da quella esperienza?
«Ho imparato i loro dialetti e ho imparato a conoscere le stelle, sono le stelle che mi hanno salvato poi. Siamo riusciti a scappare e in qualche modo bisognava cercare di orientarsi».
In molti pensano che in realtà siate stati liberati dietro pagamento di riscatto.
«Queste persone dovrebbero immaginarsi lo scenario. Come sarebbe successo? Ci hanno indicato la strada e detto per quante ore camminare, in che direzione andare? Non so chi si sia mai trovato in mezzo a un deserto la notte senza luna, senza stelle. Si ha un’idea di che direzione prendere? Si parla senza conoscere, ho scoperto mio malgrado che il deserto è molto grande, molto diverso, molto vario».
Come è avvenuto il vostro rapimento?
«Come hanno fatto a prenderci? È stato semplice perché stavamo guidando in un tratto di strada che dire dissestata è dire poco. C’erano camion ribaltati ai lati, buche profondissime. Non avevo un fuoristrada quindi dovevamo percorrerlo quasi a passo d’uomo. Era un tratto nei pressi della frontiera con il Benin, praticamente disabitato. All’ultimo posto di blocco ci hanno fatto delle domande strane che, a me e a Edith, hanno fatto suonare qualche campanello d’allarme ma ormai eravamo lì e non si torna indietro. Se vai solo a 20 all’ora ed escono in sei armati di kalashnikov e te li puntano alla testa non si ha scelta. La macchina? Presumo in fiamme, come le altre in zona. Ero preparato per il viaggio ma non per quel tipo di viaggio».
Ha mai perso la speranza di tornare a casa?
«All’inizio quando i sei ci hanno fatto scendere dall’auto il mio primo pensiero è stato che ci avrebbero fatto saltare la testa. Perché non si capisce niente, parlano una lingua incomprensibile. Quando ci hanno fatto uscire dalla strada per andare in mezzo alla foresta e hanno steso un telo per terra e ci hanno detto “adesso sedetevi qui” abbiamo pensato al peggio. Però non è successo e se non succede subito cominci a sperare che ci sia un perché. Siamo passati di mano a più gruppi. Per questo dico che non ho la più pallida idea di dove possono trovarsi padre Maccalli e Chiacchio. Io ho conosciuto almeno tre etnie, lingue totalmente diverse dalle altre. Non ho capito bene cosa mi stava succedendo ma è difficile perché ti sballottano e tu ovviamente non hai diritto di sapere cosa sta succedendo».
Come ha vissuto i 15 mesi di sequestro?
«Ci si adatta perché ogni gruppo di rapitori ha il suo stile. Abbiamo dormito per terra, sotto le stelle, avere una tenda era un sogno. Qualche volta siamo riusciti a farci un giaciglio. Si mangiava quello che c’era, a volte carne arrostita perché riuscivano a prendere delle capre da nomadi di passaggio. Dimentichiamoci cibi freschi e data di scadenza. L’importante è l’acqua e si può patire la sete».
Quando ha visto Edith l’ultima volta?
«A Bamako, quando ci hanno affidato alle rispettive ambasciate per il viaggio di rientro. Adesso Edith è in Canada in quarantena, ma per fortuna esiste internet e posso tenermi in contatto con la mia fidanzata. Speriamo che passi anche questo Coronavirus e poi si festeggerà come si deve». ––
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