«Vivono, ma non speriamo più»
Tante storie padovane all’Oic della Mandria, tanti casi-Englaro

Le sue mani sono intrecciate in un unico viluppo, rigido, impossibile da sciogliere. Colpa dei nervi rattrappiti. Lo stesso i piedi. Le gambe, invece, sotto il lenzuolo, sono distese. Merito degli apparecchi che attraverso stimolazioni limitano la riduzione dei nervi.
La pelle è trasparente. Il viso sbarbato e affilato è girato di trequarti, una guancia sostenuta e appoggiata ai cuscini: capelli neri all’indietro; un filo di saliva bagna l’angolo della bocca. Un asciugamano è lì, pronto ad assorbirlo. E la sua mamma, 63 anni, padovana, che a casa ha un marito completamente non autosufficiente («ogni giorno prima lavo lui, poi vengo qui»), è lì, vicino al figlio, pronta a raccoglierne lo sguardo impermeabile. Quando c’è. Lui si chiama Alessio (il nome è di fantasia), ha 39 anni, è uno dei 24 pazienti in stato vegetativo ospitati nel’apposito reparto-casa-comunità Centro Paolo VI all’Oic della Mandria. Una struttura che fa capo all’Usl 16.
Al piano sotto c’è l’hospice, analogo servizio dove i 12 letti sono destinati ai pazienti oncologici terminali. In entrambi i reparti (ed in ogni camera, tutte singole), colori caldi alle pareti, bei quadri, le foto, il pelouche appeso al letto, i familiari che vanno e vengono senza orari né di giorno né di notte: paiono stanze di casa; come anche gli spazi comuni ad uso dei parenti, con cucina e una sala da pranzo solo per loro. Loro che magari da anni ogni giorno passano lì le ore, condividendo la dirompente nudità di una condizione umana fatta di dolore da accettare ma anche di vitale leggerezza da trattenere attraverso le amicizie che in quel mondo a parte, più vero di quello fuori, i «sopravvissuti» stringono tra loro.
Alessio, come tutti gli altri 23 pazienti (dai 40 ai 70 anni) per sopravvivere ha bisogno solo del sondino per il cibo. Cinque anni fa, quando aveva appena messo in piedi un’impresa edile, era in moto appena fuori città: ha frenato per evitare un’auto. «Mi hanno detto che era già morto. L’hanno pompato, l’hanno riportato di qua - racconta la mamma, arrivata alla Mandria dopo 6 mesi passati nel Centro di Vicenza, tempo massimo per giudicare l’andamento di un paziente in coma, fino alla sentenza: niente da fare - Ci ho messo tanto ad accettarlo, un dolore insopportabile. Ora lo so, è così e non cambierà; comunque io non credo nei risvegli (nessun risveglio c’è mai stato in quel reparto e nessuno se lo aspetta). E poi, in che condizioni si risveglierebbe? Ecco, se cominciasse a parlare, ma giusto un miracolo ci vorrebbe. E’ stato questo posto a salvarmi perché è comunità, una casa per loro e per noi parenti. Io credo che se non ci fossero strutture così direi: lasciateli morire nel momento, non fate di tutto per salvarli e ridarceli in queste condizioni senza un posto adatto dove tenerli».
La tivù nella stanza di Alessio è accesa ma lui è girato dall’altra parte. Le infermiere (molto giovane e molto formato il personale) entrano, sistemano qualcosa ed escono. La stanza ha le pareti gialle e non è invasa da apparecchiature mediche. «Ciao Alessio»: lo saluti toccandolo e appoggiando lo sguardo alle sue inermi pupille scure. Gli occhi gli si aprono. Grandi, neri, senza profondità. La labbra si socchiudono e si tendono. Un sorriso. Forse. O un moto di fastidio. Magari una contrazione, ma arrivata a proposito. E che si ripete ad ogni «ciao Alessio». La mamma non si illude, ma quella è una forma di comunicazione.
C’è il sole e giù nel prato una moglie di 62 anni spinge la carrozzina dove è adagiato il marito, da 10 anni in coma vegetativo. «Non ho mai pensato: chissà che dio se lo prenda. Noi comunichiamo a modo nostro. Se all’orecchio gli metto la cornetta del telefono da cui si sentono i nipoti, lui si agita tutto», racconta la donna. E’ «famoso» suo marito perchè «a ferragosto, durante una festa per i pazienti, le famiglie, il personale - racconta Paolo Fusaro, il responsabile medico del reparto stati vegetativi - quando abbiamo stappato il vino, sarà stato il rumore, sarà stato l’odore, tutti ci siamo sentiti i suoi occhi addosso e si è mosso». L’uomo è finito così per una malattia cardiovascolare, che con quelle cerebrovascolari e gli incidenti sono, nell’ordine, le cause principali del coma.
Sotto il portico esterno passa una ragazza, giovanissima, si capisce che il suo è il respiro dell’angoscia: va all’hospice, da una delle 24 persone che lì vengono accompagnate alla morte da cure palliative. Sopra il bancone all’ingresso del reparto ci sono quattro libroni, ogni pagina il racconto di un umano passaggio, di una convivenza con il tumore, di una fine. Le foto di un giovane sorridente, di una donna bella e forte di vita, di tanti: a fianco un loro scritto, una testimonianza («Per fortuna ci siete voi con la vostra comprensione, disponibilità e gioia di vivere a rendere tutto più sereno», uno dei tanti scritti). Poi è arrivata la fine a chiudere il cerchio. E incollati a fondo pagina ci sono il necrologio ritagliato dal quotidiano e le parole di addio della famiglia.
Ovvio che all’Oic, struttura cattolica, tutti abbiamo la medesima idea sul caso di Eluana Englaro. «Comunque la si pensi - prosegue il dottor Paolo Fusaro - qui c’è una struttura pubblica che accoglie le persone in coma vegetativo, il 50% delle quali possiamo definirle in minimo stato di coscienza. Vogliamo astenerci dagli atti medici? Ma qui dentro, tra casa di riposo, lungodegenza, malati di Altzheimer, è tutto solo un atto medico. Se non li imbocchiamo, tre quarti dei nostri ospiti muoiono». Concetto che Ernesto Burattin, direttore generale dell’Oic, esprime più direttamente: «Che differenza c’è tra Eluana e un malato di Altzheimer che non sa di esistere? Solo il fatto che quest’ultimo cammina». Ovvero, fin dove spingere la buona morte? E ribadisce che la loro risposta al problema delle persone in coma e ai terminali prima di tutto sta nel superare attraverso la comunità il grande problema della solitudine dei malati e delle loro famiglie.
Lo dice, e lo ribadiscono i suoi colleghi come Eugenio Castegnere, direttore della lungodegenza (che ogni tanto si porta un po’ di pazienti a Lourdes: non per cercare il miracolo, solo perchè ci sono treni e strutture attrezzate per le barelle, sennò sarebbe uguale andare a Rimini), o Modesto Zago, responsabile medico dell’Hospice, che continua a seguire i pazienti a domicilio anche nei brevi periodi in cui tornano a casa.
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