Don Marco Galante e quella telefonata con il Papa: «La sua voce nel deserto del covid»

Il 21 aprile 2021 Papa Francesco chiamò don Marco Galante per pregare con lui per i malati di Covid. Quattro anni dopo, lo stesso giorno, il pontefice è tornato alla Casa del Padre

Silvia Bergamin
Don Marco Galante
Don Marco Galante

«Dio rimette in ordine tutto nella vita, ricostruisce le storie, dà un senso attraverso i numeri, le date, le coincidenze, che non sono mai solo coincidenze: questa è una Dio-incidenza».

Don Marco Galante ritorna al 21 aprile del 2021, esattamente quattro anni fa. A una chiamata, quella di papa Francesco, che ricorderà per tutta la vita. Erano le 11 e 37 di un mercoledì mattina quando il don, allora cappellano degli Ospedali Riuniti Padova Sud, sentì vibrare il cellulare, sullo schermo la scritta “sconosciuto”. Quando rispose, la sorpresa più grande: «Pronto, parlo con don Marco? Sono papa Francesco».

La telefonata del pontefice arrivò a seguito di una lettera che il sacerdote aveva indirizzato a Bergoglio, per condividere la preghiera per i malati di Covid ricoverati a Schiavonia. Fu una telefonata indimenticabile, al punto che il prete di provincia dovette sedersi per l’emozione e la sorpresa, e anche in quel momento Francesco dimostrò la sua la sua ironia, la sua presenza di spirito: «Mi è sfuggito un “o mamma mia”, ma dall’altra parte mi sono sentito dire sorridendo “no, non sono la sua mamma, sono papa Francesco!», raccontò il presbitero che stava fra i letti delle degenze dell’ospedale simbolo della pandemia nel Padovano.

L’Usl 6 Euganea ha notato lo straordinario parallelo fra i due 21 aprile, la telefonata e l’ultimo giorno di Francesco. E così don Marco – che oggi è parroco di Mandria, Voltabrusegana e San Giovanni Bosco, in zona Paltana – è ritornato a quel momento e all’intreccio con la data della scomparsa di Bergoglio: «Ricordo perfettamente ogni istante, fu un’emozione forte aver sentito la sua voce. Era lui che nominava l’ospedale in cui ero cappellano, il papa che voleva benedire le persone malate e tutti coloro che lavoravano nelle corsie. Mi esprimeva la volontà di esserci con gli ammalati, di stare vicino a loro. Fu un momento molto forte, denso, e poi ricordo perfettamente la benedizione data a tutti. Un messaggio, però, mi è rimasto impresso in modo più netto. Mi disse di non stare mai accanto a chi soffre semplicemente per abitudine».

Il vescovo di Roma invitava ad andare oltre ciò che è scontato, il tran tran quotidiano, e ripartiva dall’urgenza di stare sempre connessi alla verità rivoluzionaria e umanissima della cura, cogliere Cristo nelle ferite e nel volto di ogni donna e ogni uomo.

«Il suo stile» riflette ora don Marco, «era emerso anche in quella chiamata, in quelle poche parole ci trasmise il centro del suo messaggio e del suo pontificato, segnato dalla misericordia e dall’accoglienza di tutti gli emarginati e fragili, i poveri, i carcerati, gli ammalati, gli immigrati, gli ultimi della Terra».

Quando ha connesso che Francesco era «tornato alla casa del Padre» proprio nell’anniversario di quella telefonata? «Non ci avevo pensato. Mi stavo preparando alla messa quando è arrivata la notizia. E allora ho celebrato l’Eucarestia per lui. Poi, verso mezzogiorno, ho visto sui social il post dell’Usl 6 che mi ha ricordato questa coincidenza. E sono tornato di nuovo a quel giorno».

E i pensieri si sono fatti più intensi, ispirati: «Mi sono detto che più che una coincidenza si è trattato di una Dio-incidenza. Nel senso che Dio agisce anche così, rimette in ordine tutto nella vita, e ricostruisce sempre a fin di bene ogni storia umana».

Dio che non gioca a dadi con il mondo, ma che – per chi crede – incrocia numeri, date, momenti, persone, volti, in un disegno che passa dal caotico al provvidenziale, dalla banalità a una profondità illuminata.

«E così, ripensando a quel 21 aprile 2021, ieri sono stato pervaso da un senso di gratitudine. E non solo per quella chiamata di papa Francesco» sottolinea il sacerdote, «ma per quello che il Signore decide di fare nelle nostre esistenze, e per quello che ha fatto e continua a fare anche nella mia povera vita». Dopo gli anni vissuti a fianco dei malati in ospedale, don Marco continua a esercitare quella che chiama la «medicina della speranza».

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