La realtà virtuale in campo clinico per combattere i disturbi alimentari: «Il metaverso si potrà usare così»
Le previsioni del professor Von Larsson, alter ego di Pietro Cipresso: ecco le possibili nuove applicazioni a livello medico e scientifico
UDINE. È professore associato di psicometria all’Università di Torino, ricercatore senior all’Istituto Auxologico Italiano, un Irccs con ospedali in Piemonte e Lombardia, collabora con il Mit di Boston e con molti altri prestigiosi centri di ricerca. Ma il suo nome, Peter Von Larsson, non figura negli organigrammi di questi enti. Figura invece, con lo stesso curriculum, tra i partecipanti alla tappa udinese di Alfabeto del Futuro, in programma mercoledì 7 settembre a palazzo Valvason Morpurgo.
Non si tratta di un fake. Peter Von Larsson, infatti, è l’alter ego di Pietro Cipresso, uno dei massimi esponenti a livello internazionale sull’utilizzo della realtà virtuale nell’ambito delle neuroscienze. Cipresso ne parlerà a Udine, intervistato dal direttore del Secolo XIX Luca Ubaldeschi.
O meglio ne parlerà il suo avatar Von Larsson: si tratterà infatti di un’intervista nel metaverso, incentrata sul ricorso alla realtà virtuale nella lotta ai disturbi alimentari.
Professore, ci faccia partire coi piedi a terra. Gli esempi più immediatamente fruibili di metaverso sembrano piuttosto rudimentali, se ci passa l’aggettivo. Come credere che possano essere un supporto prezioso in ambito scientifico?
«Da un punto di vista tecnologico la realtà virtuale è molto meno fashion di come ce la fanno immaginare film come Avatar o Matrix. Siamo ad anni luce da una riproduzione così raffinata della realtà, ma siamo molto in avanti nell’utilizzo della realtà virtuale in campo clinico».
Non è una contraddizione?
«Se andiamo al teatro la storia che seguiamo ci emoziona, indipendentemente dal realismo dello scenario. A giocare il ruolo decisivo è l’efficacia della narrativa. Abbiamo almeno 20 anni di evidenze dell’efficacia della realtà virtuale in ambito neuroscientifico. E non a caso, analizzando gli oltre 21 mila articoli scientifici sulla realtà virtuale, quelli pubblicati negli ultimi dieci anni sono a maggioranza di matrice clinica».
Significa, in parole povere, che siamo in grado di riprodurre metaversi dove i nostri avatar si comportano come copie esatte di noi stessi?
«Gli studi hanno dimostrato che il metaverso, ai fini dell’applicazione pratica alle neuroscienze, è addirittura più usabile della realtà. Un paradosso? Non lo è, perché la realtà virtuale mi consente di superare dei limiti di carattere fisico o contingente che possono creare disturbi o interferenze non volute con i comportamenti che voglio analizzare. Posso ad esempio portare un paziente immobilizzato in un contesto virtuale in cui si muove, o un anziano a fare la spesa al supermercato anche se si tratta di sollevare pesi come non sarebbe in grado di fare nella realtà».
Non rischio in questo modo di creare realtà troppo virtuali?
«La piattaforma più diffusa di realtà virtuale, Second Life, ha quasi vent’anni, e oggi siamo in grado di riprodurre qualsiasi tipo di condizionamento. Il rischio, piuttosto, è quello di muoversi come extraterrestri su pianeti sconosciuti. Lo scopo del clinico è quello opposto: accompagnare il paziente in un setting controllato. Oggi esistono piattaforme che lo consentono, e che permettono anche una costante interazione tra clinico e paziente».
E se non è così?
«Un metaverso che funziona richiede tre componenti: non solo quella informatica, ma anche un ambiente costruito in modo credibile e coerente, quindi architettura e ingegneria, come fa l’architetto Davide Borra in NoReal a Torino, e un corretto approccio clinico o di autoaiuto, come fa benessereaumentato.it, il sito dell’associazione The Way, da me fondata. La tecnologia non sostituisce l’uomo, ma lo supporta. E una realtà virtuale costruita esclusivamente su basi informatiche è soltanto un gioco, nella migliore delle ipotesi. Nessuna intelligenza artificiale potrà mai sostituire un neuropsicologo, così come nessuna tecnologia ha mai sostituito un chirurgo nelle sale operatorie».
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